logo Spazio70

Benvenuto sul nuovo sito di Spazio 70

Qui potrai trovare una vasta rassegna di materiali aventi ad oggetto uno dei periodi più interessanti della recente storia repubblicana, quello compreso tra la fine degli anni Sessanta e i primi anni Ottanta del secolo scorso.
Il sito comprende sei aree tematiche e ben ventidue sottocategorie con centinaia di pezzi su anni di piombo, strategia della tensione, vicende e personaggi più o meno misconosciuti di un’epoca soltanto apparentemente lontana. Per rinfrescare la memoria di chi c’era e far capire a chi era troppo giovane o non era ancora nato.
Buona lettura e non dimenticare di iscriverti sulla «newsletter» posta alla base del sito. Lasciando un tuo recapito mail avrai la possibilità di essere costantemente informato sulle novità di questo sito e i progetti editoriali di Spazio 70.

Buona Navigazione!

31 maggio 1972. La strage di Peteano, cinquant’anni fa

Redazione Spazio70

Tre giovani carabinieri attirati in trappola e dilaniati da un'esplosione

Gorizia, 31 maggio 1972, ore 22:35. Una telefonata anonima alla Stazione dei Carabinieri segnala la presenza in strada di una Fiat 500 particolarmente sospetta. A parlare è una voce maschile con marcata inflessione locale, a tratti sconfinante nel dialetto vero e proprio. Secondo l’uomo al telefono, la vettura si troverebbe in sosta in un viottolo dell’Isontino, tra Sagrado e Savogna d’Isonzo, e avrebbe degli inquietanti fori di proiettile ben visibili sul parabrezza.

UN ATTENTATO DI MATRICE NEOFASCISTA

In breve tempo giunge sul posto una pattuglia dei Carabinieri per appurare la veridicità della segnalazione. Tutto corrisponde, la misteriosa autovettura si trova proprio lì, nella frazione di Peteano, una zona particolarmente tranquilla, del resto, quella di Gorizia è la provincia d’Italia che vanta il più basso indice di criminalità. La circostanza appare piuttosto singolare. Altre due «gazzelle» raggiungono i colleghi in pochi minuti. Il brigadiere Antonio Ferraro (31 anni) e i carabinieri Donato Poveromo (33 anni) e Franco Dongiovanni (23 anni) scendono dalle auto di servizio e si avvicinano lentamente verso il veicolo, una Fiat 500, targata GO 45902, che risulterà rubata. L’apertura del cofano innesca un potente congegno dinamitardo. Ferraro, Poveromo e Dongiovanni muoiono sul colpo dopo un terrificante boato. Restano feriti il tenente Angelo Tagliari e il brigadiere Giuseppe Zazzaro. Era una vile trappola.

I responsabili dell’attentato dinamitardo sono tre neofascisti legati a Ordine Nuovo: Vincenzo Vinciguerra, Ivano Boccaccio e Carlo Cicuttini, quest’ultimo, indicato come autore della telefonata anonima. Ad assumersi la responsabilità dell’accaduto, nel 1984, sarà lo stesso Vinciguerra, in carcere dal 1979 per essersi costituito dopo il tentato dirottamento di Ronchi dei Legionari:

«Mi assumo la responsabilità piena, completa e totale dell’ideazione, dell’organizzazione e dell’esecuzione materiale dell’attentato di Peteano, che si inquadra in una logica di rottura con la strategia che veniva allora seguita da forze che ritenevo rivoluzionarie, cosiddette di destra, e che invece seguivano una strategia dettata da centri di potere nazionali e internazionali collocati ai vertici dello Stato […] Il fine politico che attraverso le stragi si è tentato di raggiungere è molto chiaro: attraverso gravi provocazioni innescare una risposta popolare di rabbia da utilizzare poi per una successiva repressione. In ultima analisi il fine massimo era quello di giungere alla promulgazione di leggi eccezionali o alla dichiarazione dello stato di emergenza. In tal modo si sarebbe realizzata quella operazione di rafforzamento del potere che di volta in volta sentiva vacillare il proprio dominio. Il tutto, ovviamente inserito in un contesto internazionale nel quadro dell’inserimento italiano nel sistema delle alleanze occidentali».

Il 19 luglio 1984, Vinciguerra dichiara al giudice Felice Casson:

«Con l’attentato di Peteano, e con tutto quanto ne derivò, ebbi finalmente chiara consapevolezza che esisteva una vera e propria struttura occulta, capace di porsi come direzione strategica degli attentati e non, come in precedenza avevo pensato, una serie di rapporti umani, di affinità politiche. L’amicizia personale e il comune credo ideologico fra alcune persone inserite in apparati statali ed elementi di estrema destra non avrebbero mai potuto produrre livelli di copertura così estesi, e capaci di raggiungere i vertici dei servizi di informazione».

Vincenzo Vinciguerra

Pur non essendosi mai pentito, il neofascista prende nettamente le distanze dagli ambienti della destra eversiva italiana, denunciandone la collusione con gli apparati dello Stato comunemente definiti “deviati”. Un tradimento, a suo dire, considerato inaccettabile. Le ammissioni di responsabilità, le rivelazioni sul terrorismo nero e le dichiarazioni in merito ai legami tra neofascisti e organi istituzionali, per Vinciguerra non rappresentano delle confessioni bensì un modo per mettere in luce le colpe di chi si è macchiato del più grave di tutti i reati, quello del tradimento. Secondo Vinciguerra non ci si può alleare in alcun caso con i propri nemici, il timore della minaccia sovietica non è una motivazione sufficiente, poiché un fascista, in quanto tale, è avverso tanto al comunismo quanto alla democrazia capitalista. Non esistono mali minori, non esistono compromessi. Come reazione a un tale scenario, egli afferma di voler parlare e riempie intere pagine di verbali, tuttavia, lo fa in modo parziale, discontinuo, soltanto in base a ciò che ritiene opportuno svelare.

«L’imputato — afferma la Sentenza di condanna emessa il 25 luglio 1987 dalla Corte d’Assise di Venezia — non ha inteso rendere una confessione che sia riconoscimento di condotte illecite, ma ha inteso assumersi una responsabilità nel quadro di una ricostruzione storica di avvenimenti che lo vedono tuttora convinto del valore del suo disegno politico all’interno del quale trovano giustificazione i singoli episodi delittuosi contestatigli. La sua figura di soldato politico non è mai venuta meno e mantiene intatta la sua posizione offensiva nei confronti dello Stato democratico».

«NON ERANO TRE RAGAZZI»

Secondo le dichiarazioni del Vinciguerra, nei primi anni ’70 i suoi camerati veneti Delfo Zorzi e Carlo Maria Maggi gli avrebbero proposto di uccidere l’onorevole Mariano Rumor con la complicità degli uomini della scorta. Quest’ultimo dettaglio, evidente legame tra Ordine Nuovo ed i vertici delle forze di polizia, sarebbe stato la causa dell’abbandono dell’area neofascista da parte di un militante che afferma di non voler scendere a compromessi con il sistema, neppure in nome dell’anticomunismo. Totalmente opposta, invece, è la versione dell’ordinovista Carlo Maria Maggi:

«Quello lì è un pazzo da legare, è convinto non solo che io sia dei servizi segreti ma che sia anche un capo. Cioè io a quel ragazzino mezzasega avrei proposto di ammazzare un Primo Ministro? Dicendo pure che la scorta era d’accordo?! Non lo capirò mai, davvero. Non riuscirò mai a capire per quale motivo abbia inventato questa storia».

Intervistato da Sergio Zavoli nel 1990, Vinciguerra, in merito all’uccisione dei tre giovani carabinieri, afferma:

«Non erano tre ragazzi. Erano tre uomini che avevano scelto una loro via, indossavano una divisa, rappresentavano lo Stato. Io non credo neanche che sia logico cercare il piano umano, su queste faccende. Per quei tre ragazzi che lei cita, morti a Peteano, il termine assunzione di responsabilità, che oggi modifico in rivendicazione, l’ho utilizzato proprio perché erano tre carabinieri che non avevano colpe specifiche, se non quella di avere indossato la divisa e di essersi trovati lì quella sera […] Contavo di lanciare un segnale perché venisse meno questa strumentalizzazione che veniva fatta nel mondo neofascista da parte dei suoi dirigenti, i quali non potevano continuare a frequentare gli stati maggiori e i servizi di sicurezza e contemporaneamente proclamare la guerra al sistema e l’eredità della Germania nazionalsocialista».

Vincenzo Vinciguerra è in stato detenzione dal 1979.