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Giovanni Paolo II, il pontefice che sfidò l’orso sovietico

Redazione Spazio70

Iniziato nell'ottobre del 1978 e conclusosi nel 2005, il pontificato di Wojtyła, oltre a essere il terzo in assoluto per durata, ha segnato in modo fortissimo la recente evoluzione della Chiesa cattolica. Tante le pedine cruciali fatte scivolare sullo scacchiere della storia e della politica

di Annalisa Meriggi

«Santo Subito». Questa, retrospettivamente, dopo un vorticoso viaggio di quasi trent’anni, sarà la messe raccolta dopo il conclave del 1978, il tramonto dell’alba di Giovanni Paolo I. Un raccolto abbondante, fascine grosse e ordinate, che oltre ogni spauracchio si sono annodate sui tralci della storia contemporanea. Non è una natura morta. Ventisette anni di pontificato sono tanti e non di facile collocazione. Dura tre giorni, quel conclave, un triduo veloce e indolore. 16 ottobre 1978: viene eletto sommo Pontefice, pastore e vescovo di Roma uno straniero, il cardinale polacco, arcivescovo di Cracovia, Karol Józef Wojtyła e proprio dall’uso del nome assunto conviene partire, da quelle insegne che rivelano l’orizzonte di senso e di pensiero di un pontificato politico, interreligioso e filosofico. Cos’ha traghettato Giovanni Paolo II? Chi? E verso dove? Un’era intera, che ha attraversato tutte le correnti, ostili e pacifiche, dell’ultimo quarto del secolo XX fino al nuovo millennio. Il suo pontificato, iniziato nell’ottobre del 1978 e conclusosi nel 2005, oltre a essere il terzo in assoluto per durata, ha segnato in modo fortissimo la recente evoluzione della Chiesa cattolica. Tante le pedine cruciali fatte scivolare sullo scacchiere della storia e della politica.

L’approdo a partire dal nome. La cifra della scelta che indica la volontà di proseguire il sentiero solcato da Giovanni XXIII in innesto a quello di Paolo VI. Diverse le tiare prese a modello di continuità e strette in un’unica seduzione: quella di Cristo, sommo sacerdote. Si prosegue sulla scia anche dell’eredità del Papa morto d’improvviso all’alba, Giovanni Paolo I.

LA VELOCE CANONIZZAZIONE E IL RISCHIO DI «CONGELARE» IL GIUDIZIO SU WOJTYLA

Giovanni Paolo II (1979)

Ritratto fotografico di papa Giovanni Paolo II (1979)

Beatificazione nel 2011 per mano di Benedetto XVI e, dopo poco, subito l’invocazione alla canonizzazione che avviene in tempi rapidi, nel 2014, per mano di Bergoglio. Che velocità! Fa da sfondo di certo l’eco entusiastico di fronde popolari, maree umane desiderose del timbro canonico che decretasse la santità di Giovanni Paolo II. La canonizzazione è una vetta inebriante, talmente tanto che l’incenso rischia di congelare il giudizio. La storia. Ibernare ogni sbavatura. E proprio per questo ha bisogno di una sedimentazione calcarea lunga per poter essere fatta: fonti, ricostruzioni. La canonizzazione di Giovanna d’Arco, tanto per dire, risale al 1920. È un evento, quello della canonizzazione del Papa polacco che ha rischiato, forse, di imbrigliare la ricchezza di una personalità, presentandone una esemplarità univoca. Santo subito sin dalle esequie. Ogni canonizzazione ha un codice sia ecclesiale che sociale-politico, quest’ultimo quello più ambivalente e di consistenza vischiosa. Esiste una planimetria della santità? E quanto lungo dove essere il processo di decantazione? Se la canonizzazione del 2014 di Giovanni Paolo II è l’ultima battuta dello spartito, in questa vicenda, la prima è quel saluto che egli, ormai reggente, fa dal balcone. E’ un bianco cammeo che porta scritto: «Aprite le porte a Cristo».

Il suo pontificato non le apre, le spalanca: 146 viaggi pastorali in Italia e 104 viaggi apostolici in giro per il mondo. Ha internazionalizzato il ministero petrino, reso presente il simulacro di Pietro a livello globale. L’unico posto glabro, steppa brulla, in cui non arriva nemmeno un raggio di quel Cristo Solare a ferire per rifrazione? La Russia! Un magistero petrino che si esercita soprattutto in quella inedita reciprocità, promossa dal Pontefice, tra la filosofia e la teologia. Dame velate cortesi, che prendono posto una di fronte all’altra, finalmente, alla sorgente del senso e dell’ermeneutica, alla stessa altezza, ammiccando e sventolando il ventaglio della verità. Il dialogo c’è, esiste, e a dividerle non è più una cortina metallica. A dividere, in quel mondo, è rimasto il Muro di Berlino: cascherà pure quello. Questo rapporto di sorellanza, non più ancillare, fra la filosofia e la teologia troverà la sua finalizzazione in Veritatis Splendor e Fides et Ratio: fede e ragione vivono in una reciprocità in cui l’una non può escludere l’altra e ciascuna vive secondo le proprie competenze. Tutto questo è un incentivo al superamento del demone-relativismo morale.

IL CATTOLICESIMO COME COLLANTE DELL’IDENTITÀ POLACCA

Karol Wojtyla (1958)

Karol Wojtyla alla fine degli anni Cinquanta

È una grande novità questa elezione del Papa polacco perché è da Adriano VI che non veniva eletto un pontefice non italiano. Un bell’affare, un bel ponte col mondo dell’Est. E poi ha cinquantotto anni al momento della fumata bianca, si trova nel pieno delle forze, ha un’ottima formazione teologica, un’ottima preparazione pastorale dovuta agli anni di guida della diocesi di Cracovia; è una figura ineccepibile dal punto di vista morale. Personalità ottimale per la funzione strategica che col senno di poi questo pontificato avrebbe assunto nel crollo del comunismo e nella caduta del muro. Solo in questa linea si può incastonare l’attentato del 13 maggio 1981: oltre l’eziologia, oltre il piano inclinato delle piste nere, sono gli accadimenti che contano. C’è quel viaggio in Polonia del 1979, con l’affermazione delle radici cattoliche del Paese, dell’anticomunismo, con la contrapposizione sempre più diretta al fronte sovietico. E due anni dopo, in piazza San Pietro, il turco spara.

Giovanni Paolo II, insomma, non è solo un Papa che non proviene dall’Italia, o peggio, dai fasti dello Stato Pontificio, ma che proviene dall’Est della cortina di ferro addirittura; conosce il sapore della ruggine, del ferro, della poltiglia metallica. La Polonia: Paese cattolico dall’Est con una storia intricata e il cui tesoro ammonta a due lingotti belli pesanti: uno ha inciso sopra cattolicità, l’altro identità. Il Cattolicesimo, in Polonia, ha sempre fatto da forza motrice, da collante nell’identità del Paese stesso. Cattolico e polacco è uno stendardo, un binomio invincibile. E’ stato questo ordigno particolare, di tipo identitario, a far uscire la Polonia dal tunnel, a far sì che sopravvivesse. Fare memoria in una litania perenne, come gli ebrei in esilio. Un Paese martoriato dalle zolle della storia che si rivoltano, continuamente. La storia piega, trincia, fra i corsi e i ricorsi di condanne e redenzioni. L’infamia e la vergogna si trascinano nei secoli sullo stesso palco: protagonisti e marionette, boia e carnefici, vittime e martiri.

Chi e cosa ha accompagnato la Polonia sugli spalti? La monarchia, prima; un Regno che aveva vissuto il dramma cocente, stretto fra le maglie della riforma protestante; poi dall’exodus, il reditus al cattolicesimo; l’invasione degli svedesi; unica icona incorruttibile, la Madonna di Czestochowa, nera vergine cui aggrapparsi per resistere, integri e incontaminati. L’icona a cui si aggrappa anche il Papa nel corso di tutto il suo pontificato devotamente mariano. Quell’icona diventa uno dei simboli dell’identità di questo Paese. La Polonia smembrata dopo la guerra, come la tunica di Cristo: «Non stracciamola, ma tiriamo a sorte a chi tocca». E la divisione: da una parte la Russia zarista, dall’altra l’Austria. Il Paese, comunque, tra le pieghe del caos della spartizione rimaneva compatto, con una sua identità linguistica, culturale, grazie al cemento cattolico. All’indomani della fine della prima guerra mondiale, l’armonia sembra ritrovata, ma è solo un miraggio; prima che scoppi il secondo conflitto si recupera la parte della Russia, che si estendeva nell’attuale Ucraina. Dopo il secondo conflitto, di nuovo si divide: e la Russia occupa la parte orientale. Montagne russe di oscillazioni e di confini, tempeste governative e culturali. Rimangono solo i santuari mariani che alimentano la fede religiosa e identitaria.

NAZISMO O COMUNISMO? NÉ L’UNO NÉ L’ALTRO

Karol Wojtyła nel giorno della sua prima comunione

Wojtyła nel giorno della sua prima comunione

Le radici biografiche di questo uomo, Karol, affondano nella Polonia uscita dal tunnel roccioso della prima guerra mondiale, appena ricostituita in unità. E’ un giovane aitante, profondamente pensante, che sperimenta sulla propria pelle l’occupazione nazista. La giovinezza dura plasma. Universalmente intelligente, universalmente attraente e attrattivo. E calca le scene, lo farà per tutto il pontificato. E’ quella sua capacità di presentarsi, di gestire il pubblico in maniera vincente, persuasiva, comunicativa. Qualunque esso sia.

Nasce il 18 maggio del 1920 a Wadowice, Polonia del Sud, non troppo lontano da Cracovia e da Auschwitz. La madre, Emilia Kaczorowska, muore presto. Il fanciullo Karol, orfano di madre e figlio unico, cresce col padre, sottoufficiale dell’esercito austriaco e poi, dopo la guerra, ufficiale dell’esercito polacco. La storia familiare è triste, proprio come quella della sua nazione martoriata. Frequenta il ginnasio più avanti e nel 1938 si iscrive a Filosofia all’università di Cracovia, dove si trasferisce a vivere col padre. Cracovia è uno dei centri intellettuali del Paese, dalle poche pretese, ma versatili: c’è il teatro, di cui Karol è appassionato, c’è fermento spirituale, c’è lo Studio 38, gruppo fondato da Kudlinski, il teatro clandestino, e quello rapsodico.

Che potenza l’arte, catarsi espressiva in mezzo ai soldati e all’espiazione. Bruciano sotto le vene, intanto, i versi di Giovanni della Croce e Teresa d’Avila. Brucia la poesia insita nella creatura umana. C’è la politica che segna, fuori dal sipario: gli avvenimenti che segnano questa nazione di frontiera, sempre sotto lo sguardo severo di diversi padroni, che fanno dei confini un caleidoscopio; una lingua di terra che sopravvive solo grazie alla memoria religiosa degli abitanti. Prima ancora dell’invasione tedesca del 1939 e della successiva caduta nella sfera di influenza sovietica, il mondo culturale polacco trema per due tipi di scosse: nazionalismo sussultorio e comunismo ondulatorio. Entrambi, in modi diversi, non esitano a proclamare il totalitarismo come unica risposta ai problemi della modernità. E’ il trend dell’epoca. Sono tentativi di normalizzazione, quelli promossi dei regimi, a cui l’identità polacca, bizzosa, fiera, diversa, timorata di Dio, non vuole corrispondere. La dittatura nazista e il regime comunista: a Karol non va. Continua, dapprima in filigrana, poi ex cathedra al soglio, sarà la difesa della libertà religiosa in quanto libera scelta dell’uomo, appannaggio di Dio, icona vivente di Dio, spirito incarnato con venature trascendenti. Figlio di Dio adottivo per incorporazione a Cristo.

LA MORTE DEL PADRE E LO «SFREGOLÌO» DELLA CHIAMATA

I genitori di Giovanni Paolo II, Emilia e Karol Wojtyła Sr. (primi anni del secolo XX)

Il ritratto nuziale dei genitori di Giovanni Paolo II, Emilia e Karol Wojtyła Sr.

Nella sua formazione, oltre all’esperienza teatrale c’è l’esperienza del duro lavoro. Egli sperimenta a teatro, ma pure mentre lavora, l’interpretazione dei segni dei tempi. E’ faticoso: nel 1940 trova lavoro come operaio in un cava di pietre a Zakrzowek, questo gli risparmia la deportazione. Alla morte del padre, nel 1941, rimane solo e inizia a sentire lo sfregolìo della chiamata, delle nubi in alto che si condensano nella forma del Padre che chiama. Qualcosa lo spinge al sacerdozio: «Lo scoppio della guerra mi allontanò dagli studi e dall’ambiente universitario. In quel periodo persi mio padre, l’ultima persona che mi restava dei miei più stretti familiari. Anche questo comportava, oggettivamente, un processo di distacco dai miei progetti precedenti. In qualche modo era come venir sradicato dal suolo sul quale fino a quel momento era cresciuta la mia umanità. Non si trattava però di un processo in negativo. Alla mia coscienza, infatti, nel contempo si manifestava sempre più una luce: il Signore vuole che io diventi sacerdote». (Dono e mistero. Nel 50 del mio sacerdozio, Città del Vaticano 1966, 4).

Dal 1942 Karol fa l’operaio, lavora in una fabbrica chimica, Solvay si chiama. Inizia a frequentare clandestinamente i corsi di teologia dell’Università Jagellonica. Entra a far parte del seminario, sempre di nascosto, sotto la guida dell’arcivescovo Sapieha, al quale deve un grosso incoraggiamento per le successive scelte in difesa della libertà e della dignità dell’individuo. E’ accolto nel palazzo dell’arcivescovado, dove rimane per tutto l’ultimo periodo del conflitto mondiale. Quel luogo riparato dalle coltri di morte della guerra è teatro sì, ma della realtà, i sipari sono le tende dei finestroni: digiuni, vigilie, letture, preghiere fitte, comunitarie e private, silenzi, studi. La pietà cristiana racchiude a ceralacca tutti questi elementi ad alternanza, in una dialettica che va poi lasciata debitamente asciugare. La forte devozione nei riguardi di Cristo, cifra costante del pontificato, quella all’insegna della Redemptor Hominis, prende la seria forma di una Imitatio Christi costante, di una missione per la vita che costa sacrificio ponderato, a immagine e somiglianza di quello di Dio.

L’AVVERSIONE PER IL COMUNISMO

Il giovane sacerdote Karol Wojtyła (1948)

Il giovane sacerdote Karol Wojtyła (al centro del gruppo) a Niegowić nel 1948

Nel 1946 è ordinato sacerdote e si iscrive all’Angelicum a Roma. La formazione intellettuale di questa fase è ricca, imperdonabilmente influente: incontra il pensiero di Scheler, Maritain, Mounier. Rielabora la filosofia dell’individuo nell’opera Persona e Atto. Incontra anche De Lubac e Von Balthasar che creerà cardinali alla fine della loro vita. L’esistenzialismo cristiano, tra neoscolastica e fenomenologia, il personalismo, l’antropologia e la teologia del corpo: tutto riconduce all’uomo, tutto lo fa rifulgere di trascendente bellezza, la bellezza della persona che Karol ha sempre servito, in una perenne liturgia, il cui nucleo caldo è l’esperienza filosofica. E così si addottora.

Nel 1948 fa ritorno in Polonia, alla ferita madrepatria, a poca distanza da Cracovia. Fa il viceparroco di Niegowic, e insegna etica sociale all’università. Un ritorno infelice, che si consuma proprio durante la fase del consolidamento del potere comunista. Le strade che trova Karol sono più sterrate, quasi più di quelle ai tempi di guerra, vacue, e chiuse alla logica del senso dell’uomo a lui così cara; chiuse come le aule dell’Università di Jagellonica; tutte le riviste di ispirazione cattolica critiche verso il vigente sono soppresse, il regime comunista taglia le gambe e le incenerisce. Quel che rimane di questi tempi oscuri è uno pseudonimo: Andrzej Jawien. È il falso nome di Karol, Karol poeta, Karol futuro pontefice, Karol drammaturgo, Karol che compone meditazioni sul matrimonio cristiano. Karol «spia infiltrata». Anti-sovietica.

L’avversione per il comunismo è netta, unita a un senso forte di sentimento di difesa del proprio Paese, della libertà di pensiero che di nuovo viene con sgomento vilipesa; dopo l’oltraggio nazista ecco che un’altra furia rimonta, smembra gli uomini e li mette in pericolo: «La Chiesa polacca in questo secolo ha dovuto sostenere una lotta drammatica contro due regimi totalitari: contro il regime ispirato dall’ideologia nazista durante la seconda guerra mondiale; poi, nei lunghi decenni del dopoguerra, contro la dittatura comunista e il suo ateismo militante» (Dono e mistero, 77).

DAL CONCILIO VATICANO II ALLA PORPORA CARDINALIZIA

Paolo VI impone la berretta cardinalizia a Karol Wojtyła

Papa Paolo VI mentre impone la berretta cardinalizia a Karol Wojtyła

L’unica università cattolica in circolazione che rimane attiva nelle terre dell’Est è quella di Lublino, dove viene chiamato a insegnare: teologia morale. Viene nominato vescovo ausiliare di Cracovia e poi mandato a seguire i lavori del Concilio Vaticano II dove entra in cantiere, in particolare, per la costituzione Gaudium et Spes; è incaricato, insieme ad altri, di redigerne il testo. A Roma, nel 1962, è nominato membro di commissione di studio per i problemi della famiglia: la croce appuntata al petto brilla sempre sotto i riflessi di luce dell’antropologia cristiana. La partecipazione al Concilio da perito-padre conciliare gli permette di sensibilizzare i vescovi sulla difficile situazione vissuta e respirata dalla Chiesa nei Paesi dell’Est. Nel 1964 viene nominato da Paolo VI arcivescovo di Cracovia, capitale culturale e morale della Polonia. Varsavia, in fin dei conti, restava solo la capitale politica nata successivamente; è Cracovia il centro della vita di quel Paese, epicentro umanistico e nevralgico, sin dalla monarchia precedente. Sono anni funesti, di guerra proclamata alla Chiesa dal Partito comunista Operaio Unificato, il Polska Ziednoczona Partia Robotnicza. Il gelo tra Stato e Chiesa è così spesso, così impermeabile che la calotta propaga geloni, stalattiti aguzze, torrette d’assalto e guglie. Un paese da incubo di ghiaccio.

Nel 1967, nel concistoro del 29 maggio, Karol viene creato cardinale da Paolo VI all’interno di una Polonia dove è presente già Wyszynski, primate di quella terra, apostolo porporato, che diverrà amico del futuro pontefice; lui, come altri, non aveva avuto paura, cavalcando il carisma di Saulo di Tarso, quando sotto il regime di Beirut, impedito dallo stalinismo, era stato confinato a doppia mandata in un convento: «quando sono debole, è allora che sono forte».

IL PONTIFICATO

Giovanni Paolo II in Polonia (1979)

Il primo viaggio papale di Giovanni Paolo in Polonia (giugno 1979)

I primi atti del pontificato di Giovanni Paolo II hanno una caratura simbolica, decisa. Dopo l’elezione, tanto per cominciare, salito al soglio di Pietro, venera i due patroni di Italia, Francesco d’ Assisi e Caterina da Siena. L’amore per la sua terra di origine si coniuga senza grumi troppo densi con il rispetto del Paese ospitante, nella consapevolezza di una cooperazione fra patrie, per un degno magistero. Questo stesso senso trapela delle parole pronunciate nella famigerata occasione ad Assisi per l’incontro interreligioso tenutosi nel 1987: «Questo chiede a te, figlio santo della Chiesa, figlio della terra italiana, il Papa Giovanni Paolo II, figlio della terra polacca. E spera che non glielo rifiuterai, che lo aiuterai».

La prima visita pastorale che farà in Polonia, dal 2 al 10 giugno 1979, è una bomba. Fa genuflettere la storia dell’Est e tremano gli obiettivi massmediatici: universalismo, misericordia divina, vivere il pellegrinaggio terreno all’insegna dell’esempio di Cristo; questi sono solo alcuni dei temi caldi del suo discorso, volto a un ravvedimento serio, volto anche ai comunisti. Più di un milione di persone presente nella zona industriale di Varsavia. Richiama al ravvedersi seguendo le tracce delle radici cristiane della Polonia e producendo un grande scossone nel cuore indurito del regime. Un terremoto politico che mette in forte agitazione persino i servizi segreti. Ci si industria a racimolare qualche dossier fasullo, a cucire qualche notizia con legacci sconsacrati, a insinuare, a inquinare la reputazione del pontefice. Niente da fare. L’Arcivescovo di Cracovia è già santo.

Le circostanze politiche del suo pontificato sono particolari: Giovanni Paolo II è polacco, purosangue, conosce bene la situazione del Paese, del mondo, ha vissuto il dramma della deprivazione della libertà di espressione, i tempi delle censure al Teatro Nazionale di Varsavia sotto Gomulka, e si trova coinvolto in un’iniziativa fortemente politicizzata della Chiesa. La prima parte del suo pontificato è tutta altamente segnata da uno stile decisionale che non può avere un atteggiamento di neutralità rispetto agli avvenimenti politici, ormai disposti ad arcipelago. Sin dai primi viaggi, dai primi, al centro della riflessione e al centro degli atti c’è il richiamo ai diritti umani, alla libertà di religione, alla determinazione a liberare l’Europa dell’est dal dominio dell’impero sovietico.

CONTRO «L’ORSO» SOVIETICO

Giovanni Paolo II durante il viaggio in Polonia del 1979

Un’altra immagine di Giovanni Paolo II durante il viaggio in Polonia del 1979

Quando la Russia minaccerà l’intervento armato, Giovanni Paolo II affermerà che tale atto sarebbe stato paragonabile all’invasione nazista del 1939. Quella stessa nomina battente di monsignor Casaroli a Segretario di Stato e Prefetto del Consiglio per gli affari pubblici della Chiesa, nel 1979, è finalizzata a utilizzare ogni mezzo per la distensione, e lui, officiante della diplomazia, se ne intendeva parecchio di mani tese. Gli sforzi del Papa per creare una situazione di democratica convivenza civile in Polonia e veder ripristinati i diritti della Chiesa sono stati decisivi e hanno influito più che direttamente su alcune delle principali scelte politiche e sociali del Paese.

Giovanni Paolo II va nella tana dell’orso sovietico, che è sempre più incalzante con i suoi rugli, e supera con quella trasferta la linea gotica, franca, diplomatica dell’Ostpolitik. Viaggia da polacco, parla da polacco, viaggia da Papa, parla da Papa. Viaggia sugli spalti della sua realtà, sugli spalti del suo Paese. Richiama i polacchi all’identità cattolica e all’unità della casa comune europea nella sua radice di foggia cristiana, gemma inestimabile. C’è la segreta volontà di (ri)costruire l’unità spirituale dell’Europa cristiana, sapendo di doversi confrontare con un regime che comincia a vedere i pericoli di una presenza religiosa capace di mobilitare un numero incredibile di persone.

Questo, per esempio, attraverso Solidarność, il primo sindacato libero del blocco comunista che si costituisce nella Polonia del 1980, in seguito agli scioperi operai dei cantieri di Danzica. Aderiscono milioni di polacchi. E la società polacca, oppressa dal 1945 dal regime comunista, magicamente si risveglia. La Chiesa polacca rimane a fianco della gente, adesso, organizza aiuti materiali, sostiene le famiglie dei carcerati e degli internati, fornisce aiuto spirituale e psicologico. E’ la madre Chiesa, ospedale da campo. Questo è il senso dell’omelia di Varsavia del 2 giugno 1979: «Non si può escludere da Cristo dalla storia dell’uomo in qualunque parte del globo […] L’esclusione di Cristo dalla storia dell’uomo è un atto contro l’uomo […]. Non è possibile capire senza Cristo la storia della nazione polacca».

L’APPOGGIO A SOLIDARNOŚĆ

Danzica, agosto 1980. Sciopero al cantiere navale Vladimir Lenin (scatto di Zenon Mirota)

Danzica, agosto 1980. Sciopero al cantiere navale Vladimir Lenin (scatto di Zenon Mirota)

Le parole di Giovanni Paolo II fanno tremare gli anelli arrugginiti della cortina, sono forti, sono chiare, sono vere. Descrivono una situazione reale, analizzano senza titubanze diplomatiche i malesseri di una nazione in sofferenza. L’appoggio a Solidarność, altresì, è senza compromessi: un biglietto di solo andata. Il Papa appoggia la confederazione nazionale di sindacati indipendenti. La volontà del pontefice, in questa occasione come in altre, come negli altri due viaggi in Polonia che compirà, è quella di far rinascere nei cuori della sua gente la risacca profumata dello spirito religioso del passato, in un tempo in cui tutto sembra essiccato e destinato a una atea malora; i valori, la dignità dell’uomo, dignità che è natura regale assunta sulla carne dell’uomo sin dalla nascita. Ineliminabile, ma mai trascurabile: la dignità non si perde, ma si coltiva.

E’ solo l’inizio della cattedrale ecclesiale, che si premura di risaltare la luce di Dio negli uomini; è la Chiesa-Cattedrale di Giovanni Paolo II, che lui edifica e difende con coraggio, che amministra fornendo forza e strumenti per far sì che riacquisti centralità nel mondo contemporaneo; è la Chiesa che milita, antitotalitaria, che sgrana rosari antisovietici, è la Chiesa dell’Imitatio di Gesù, è la Chiesa di Saulo, è la Chiesa a modello dei martiri, che spinge i fedeli a scavare, ad abbeverarsi alla fonte del Vangelo, ma con il sangue secco sotto le unghie. E’ la Chiesa del martire polacco Popieluszko, sacerdote e attivo sostenitore della Confederazione, ammazzato dalla polizia segreta ai tempi dello stato di guerra avanzato dal comunismo nel 1984. Con la dichiarazione di tale stato e l’introduzione della legge marziale da parte del generale Jaruzelski, inizia il periodo un Direttorio fatto di persecuzioni e di arresti degli attivisti del sindacato. Il prete cappellano di Solidarność ha la colpa di smascherare i comunisti farisei, con le loro ipocrisie balorde, rametti secchi di materia immanente, e indica ai cristiani la via: vincere il male con il bene. Così il totalitarismo si prende per la collottola: facendo del bene. Per il regime totalitario comunista un sacerdote così doveva essere eliminato. Fisicamente.

È questo l’inizio, solo l’inizio, del pontificato del gigante con la mitria di tufo, il tufo isolante delle catacombe, indistruttibile alle pieghe della storia, ai cedimenti, di quel santo traghettatore verso il nuovo millennio. Il pontificato di Karol, almeno in questa prima fase, prevede e gestisce gli smottamenti e le scadenze delle infamie politiche, le forme divine e affannate della storia con disinvoltura diplomatica e lucidità gestionale. E con la stessa costanza di chi si reca all’eremo, ogni giorno, in alta montagna, a pregare, per tutta una vita.