Qui potrai trovare una vasta rassegna di materiali aventi ad oggetto uno dei periodi più interessanti della recente storia repubblicana, quello compreso tra la fine degli anni Sessanta e i primi anni Ottanta del secolo scorso.
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E’ il 29 marzo 1956 quando il Corriere della Sera pubblica un articolo, firmato da Arnaldo Geraldini, sulla vicenda del primo trapianto di cornea effettuato in Italia, «un miracolo della cheratoplastica», avvenuto presso la clinica oculistica del professor Salvatore Sgrosso di Messina. E’ la storia della piccola Maria Gaita, bambina non vedente ricoverata presso l’Istituto «Santa Rita» di Amalfi, ex pastificio riconvertito dopo la guerra in ricovero per ragazzi con deficit fisici e psichici. Ed è soprattutto la prima volta nella quale balza agli onori della cronaca quella che il Corsera definisce «direttrice professoressa Maria Diletta Pagliuca»: la donna, conosciuta da tutti come «suor Maria Diletta», oltre ad aver lasciato anni addietro l’abito religioso, è in realtà priva di qualsiasi titolo accademico e l’articolo rappresenta una occasione di pubblicità per quella che verrà più tardi definita «la seviziatrice di Grottaferrata». Una vicenda di maltrattamenti a danno di «piccoli subnormali», ampiamente documentata dalla stampa degli anni Sessanta-Settanta, che scoppia ufficialmente nel giugno del 1969 portando all’arresto della Pagliuca.
Le chiacchiere che circolano sul «Santa Rita» riferiscono di condizioni non certo eccellenti, ma nessuno immagina cosa si svolga dentro la palazzina della Pagliuca. La posizione della «ex suora» nei primi mesi del 1969 pare regolare: l’ispezione della polizia di Frascati non porta a nulla perché tutto quanto risulta in ordine. Niente catene, niente legacci, nessun strumento di sevizie, niente di niente: le forze dell’ordine si limitano a riferire al prefetto che i locali non sono idonei. Si scopre, poi, che la Pagliuca ha avuto una soffiata da parte di un ufficiale sanitario di Grottaferrata che verrà processato per favoreggiamento, rivelazione di segreto d’ufficio e falso.
Quando nella sera di venerdì 6 giugno 1969 la polizia compie una seconda ispezione, questa volta non preannunciata, lo spettacolo che si presenta dinanzi agli occhi è terrificante: quindici ragazzi sono incatenati ai lettini, infreddoliti, denutriti, con gli occhi pieni di paura. I ricoverati risultano ventotto in tutto; di questi, solo tre sono in condizioni fisiche accettabili e vengono subito trasferiti all’Istituto per oligofrenici «Villa Luisa» di Montecompatri: si meravigliano per gli abbondanti pasti e raccontano che «suor Colomba», come si faceva chiamare Maria Diletta Pagliuca, dava loro per cena solo una fetta di pane con un po’ di marmellata. I restanti venticinque bambini vengono invece ricoverati all’ospedale di Velletri: i loro corpi presentano segni di percosse e lividi provocati dalle catene con le quali sono stati legati di notte. Le indagini si concentrano poi su almeno quattro bambini morti, nel tentativo di accertare un eventuale nesso di causalità tra i decessi e le sevizie.
Nell’aprile del 1970 l’istruttoria del giudice Renato Squillante si avvia ormai alla conclusione e nel luglio dello stesso anno la Pagliuca viene rinviata a giudizio assieme ad altri quattro imputati. L’accusa contestata è pesante: maltrattamenti seguiti da morte – reato che prevede fino a venti anni di reclusione – assieme alla truffa aggravata per avere sollecitato e ottenuto sovvenzioni da enti pubblici e privati per le proprie pseudo-attività assistenziali.
Intanto la riesumazione delle quattro salme dei bambini deceduti nell’ultimo periodo del «Santa Rita» non fornisce al giudice elementi utili a dimostrare un rapporto di causa-effetto tra i maltrattamenti e la morte: a puntellare la convinzione del magistrato inquirente sulle più gravi responsabilità dell’imputata rimane comunque una incredibile serie di testimonianze.
Nell’ottobre del 1970 l’istruttoria, durata tredici mesi, si conclude con il rinvio a giudizio della ex suora, di sua sorella Antonietta, e di altre tre persone. L’accusa è quella di maltrattamenti seguiti da morte, truffa continuata e aggravata ai danni di alcune amministrazioni.
Nella sua sentenza di rinvio a giudizio il giudice Renato Squillante denuncia a chiare lettere le responsabilità degli organi ai quali la legge affida la vigilanza e il controllo degli istituti come il «Santa Rita», accusandoli di chiudere troppo spesso un occhio per interesse o noncuranza. La «casa famiglia» della Pagliuca ha infatti potuto funzionare e prosperare nel tempo senza autorizzazione alcuna, nonostante le denunce, le ispezioni, le morti sospette di alcuni ragazzi.
Gli episodi ricostruiti dal magistrato nelle centotrentotto pagine della sua sentenza sono inquietanti: «La Pagliuca entra nella vita religiosa a quindi anni facendo il noviziato prima a Sorrento e poi a Roma», scrive il giudice istruttore, «dove si specializza nella assistenza ai ciechi e ai sordomuti. Ordinata suora, col nome di Suor Colomba, diviene superiora dell’Ordine monastico delle Elisabettiane dal quale viene espulsa per gravi motivi. Ha modo anche di essere superiora della sezione femminile dell’Istituto serafico per sordomuti e ciechi di Assisi, dal 1936 al 1944. Con provvedimento del 5 marzo 1945 le viene imposto di deporre immediatamente l’abito religioso dopo essere stata sciolta dai voti perpetui. Nel 1945 viene denunciata dai carabinieri di Assisi per furto aggravato e nel 1946 dai carabinieri di Acquasanta per avere abusivamente vestito l’abito religioso. Tutti questi procedimenti si concludono però con la amnistia».
«La Pagliuca, con il suo amante, l’avvocato Mario Telesca, si trasferisce successivamente a Grottaferrata», continua Squillante, «ed è qui che il Telesca, descritto come un nullatenente, quale procuratore generale della Pagliuca, in data 16 marzo 1951, chiede al comune il nullaosta per l’apertura nella villa Tupini, appositamente presa in affitto, di un convitto privato con annesso giardinetto per l’infanzia denominato “Casa materna per bambini minorati”. Dopo un primo sopralluogo effettuato nel 1951, tre anni più tardi l’ONMI (l’Opera Nazionale Maternità e Infanzia) dispone una nuova ispezione e rileva nell’istituto la “assenza in ogni sua parte del principio igienico: i ricoverati vivono allo stato brado: locali tenuti male: gabinetti sudici: in una sola camera piccola dormono nove bambini, obbligati a stare seduti senza possibilità di giocare o applicarsi e in una promiscuità pericolosa”. Nel 1957 una terza ispezione sottolinea che “l’istituto è una modestissima casa di campagna in pessime condizioni di abitabilità o manutenzione. L’impressione riportata, dal punto di vista igienico e tecnico specialistico, è stata penosa”».
«La prefettura rimane inerte, anche di fronte ai ripetuti inviti», scrive ancora il giudice istruttore, «rispondendo poi che, a una ispezione eseguita da una propria assistente sanitaria, il cosiddetto istituto era risultato idoneo. Ma in data 15 febbraio 1958 il dottor Mario Rotoli esegue, per conto della ONMI, un’altra ispezione, riferendo che i bambini ricoverati sono privi di assistenza qualificata. Egli afferma, in particolare, che “non vi sono parole per descrivere le pessime condizioni di abitabilità”. Nell’ottobre 1960 una nuova relazione ispettiva osserva: “Di una bella e comoda costruzione non resta che una sordida catapecchia adibita all’abbrancamento di infelici bambini minorati. Ho trovato una signora malmessa, diffidente che mi ha condotto in locali, a prima vista e odore, in pessime condizioni di manutenzione. Refettorio maleodorante, sporco: la cucina non pare abbia avuto l’onore dell’acqua per la pulizia. Porte sgangherate, urina stagnante a terra, sporcizia stratificata sulle pareti, insetti schifosi che movimentano l’ambiente. Questi locali sono il soggiorno di una quindicina di bambini minorati psichici e non che sono ospiti a pagamento di questo assurdo collegio di pesudo-rieducazione. E’ infame, obbrobrioso, incomprensibile vedere in quell’ambiente dei giovani ai quali la vita, oltre a non avere dato la fortuna dell’intelletto non ha dato nemmeno la fortuna di una assistenza non dico cristiana, ma perlomeno naturale. I loro corpicini scarni, deformati, i loro occhi spenti ma tristi fanno sì che qualsiasi uomo anche il più abietto si muova a compassione e inviti chi è competente a provvedere”».
Tutto falso, tutte invenzioni ignobili, risponde la Pagliuca a processo. Altro che lager: l’istituto per subnormali era una specie di paradiso terrestre: i bambini dormivano in letti da venticinque mila lire ciascuno, materassi di gomma, biancheria soffice, culle guarnite di veli celesti, mangiavano carne, uova e frutta fresca tutti i giorni. La ex suora è convinta di essere una santa, finita in Corte d’assise per la cattiveria degli uomini per i quali sembra quasi chiedere pietà quando seduta davanti ai giudici alza gli occhi al cielo tenendo le mani unite sul grembo. In udienza esordisce con una specie di lamento che non può definirsi pianto perché non ci sono lacrime: «Sono sempre stata eroica, una santa. Ho sempre aiutato coloro che soffrono, ho sacrificato quattordici anni della mia vita e in cambio ho avuto trenta mesi di galera».
La Pagliuca non è molto alta, è in carne, vestita di nero con i capelli raccolti sotto un cappello guarnito con una piuma chiara. Non sa esprimersi bene: dice che i suoi bimbi erano «astrofici». Passa dal sorriso al lamento con una rapidità sorprendente. Ma nella confusione delle sue parole fissa un concetto: i bambini dell’istituto erano rifiutati da tutti e le madri disperate si rivolgevano a lei, la «Santa di Grottaferrata».
Il 4 dicembre 1970 è il giorno di Laura Longhi, l’infermiera del «Santa Rita» che, di fatto, con le proprie accuse, ha mandato in carcere la Pagliuca. La Longhi, 43 anni, entra in aula con un vistoso giaccone di pelle rossa e pantaloni neri. Assunta come fisioterapista e insegnante per i bambini recuperabili, in realtà, viene impiegata per qualsiasi mansione. Secondo la Longhi, è proprio il trattamento feroce disposto dalla Pagliuca a impedire il recupero di alcuni bambini. Il cibo, a detta della infermiera, era solo una brodaglia con un po’ di orzo al mattino; a mezzogiorno un intruglio che veniva chiamato minestra, con la pasta stracotta per farla sembrare di più. I ricoverati, sempre secondo la Longhi, venivano picchiati con le stecche e quelli più inquieti legati e incatenati ai letti, in gruppi di due o di tre, e anche in inverno venivano lasciati nudi: la Pagliuca, inoltre, evitava di mettere coperte e lenzuola perché i bambini facevano la pipì. Per la stessa ragione, razionava l’acqua. Un bambino, di nome Luigi, bastonato e incatenato, per reazione, diventò pazzo furioso al punto tale da mordere chiunque gli si avvicinasse. La Longhi aveva sperato a lungo in una ispezione seria, ma il maresciallo dei carabinieri di Grottaferrata e la moglie, dice l’infermiera a processo, «erano amici della Pagliuca che li riempiva di regali, ma per fortuna conobbi il commissario Marra: così andai da lui e raccontai tutto».
Il 13 gennaio 1972, viene finalmente letta la sentenza di primo grado. Alla ex suora la corte riconosce la responsabilità per maltrattamenti semplici condannandola a quattro anni e otto mesi di reclusione. Una decisione che sorprende tutti perché nessuno si aspettava una così netta divergenza con la richiesta della pubblica accusa.
Quando la Pagliuca viene scarcerata, una piccola folla la attende all’uscita del carcere di Rebibbia. Qualche genitore dei bambini ricoverati al «Santa Rita» ha minacciato vendette e per questo il penitenziario romano viene presidiato da numerosi agenti di polizia e carabinieri. Alle 18 del 20 gennaio 1972 la Pagliuca sale su una «500» di color grigio e per non farsi notare dalla folla in attesa si distende sul sedile posteriore dell’auto coprendosi con un foglio di cellophane. L’auto viaggia nel centro di Roma diretta alla questura di via San Vitale dove la Pagliuca deve recarsi per svolgere le formalità di rito prima della scarcerazione vera e propria. Ma anche davanti alla questura diverse persone sono in attesa dell’arrivo della ex suora: urla e insulti volano al suo indirizzo, mentre decine e decine di fotografi tentano di riprenderne il viso. Qualcuno tenta perfino di strapparle di dosso lo scialle utilizzato per nascondersi. Sbrigate le formalità di rito, alle 19 la Pagliuca sale su un’altra auto: la destinazione è ignota, ma probabilmente il suo rifugio è il paese di origine, Montefalcione, in provincia di Avellino.
Intanto il presidente della seconda sezione della corte di assise, quella della sentenza contro la Pagliuca, querela per diffamazione gli avvocati della parte civile e alcuni giornali romani. Si tratta di una reazione alle critiche ricevute dopo i soli quattro anni inflitti alla ex suora.
Nell’aprile del 1974 viene letta la sentenza di secondo grado. La ex suora viene condannata a dodici anni di carcere: la pubblica accusa ne aveva chiesto diciotto. Una corte, quella di secondo grado, che fin dalle prime udienze dà subito l’impressione di voler accertare se l’istituto Santa Rita fosse veramente un lager. Quando la Pagliuca viene a sapere della condanna in appello, si dispera: piange a lungo, grida, invoca la giustizia divina e se la prende con chi, a suo dire, avrebbe gonfiato gli avvenimenti «creando tutta una montatura». Ma la ex suora non torna subito in carcere: nonostante la pesante condanna, c’è ancora da attendere la pronunzia della Cassazione.
E la Cassazione si pronuncia presto: la prima sezione penale, presieduta dal dottor Giovanni Rosso, per effetto della nuova legge sul cumulo delle pene, riduce la condanna di secondo grado a otto anni e quattro mesi di reclusione più trecentottanta milioni di multa. E’ dopo la sentenza definitiva che la Pagliuca torna in carcere, ma prima bisogna trovarla. E non è facile. I carabinieri devono cercarla e la rintracciano a Ostia, dentro un appartamento, nel quale la ex suora si era rifugiata godendo della ospitalità di una amica poi arrestata per favoreggiamento.
E’ il 17 dicembre 1974 quando il capitano Blasi, comandante della compagnia di Ostia, telefona all’appartamento di via Acton in cui si sospetta si trovi la Pagliuca: l’amica è fuori casa, ma una donna prende comunque la chiamata riabbassando subito dopo la cornetta. E’ a questo punto che i carabinieri decidono di sfondare la porta, per poi procedere alla perquisizione di tutto l’appartamento: Maria Diletta Pagliuca viene trovata accovacciata dentro un armadio a muro.
La ex suora le tenta tutte per riacquistare le libertà, giungendo a chiedere la grazia al Presidente della Repubblica, ma nell’agosto 1975 Leone respinge la domanda avanzata dai legali della donna. La Pagliuca uscirà di galera nel marzo 1978.
Andrea Purgatori, a fine anni Settanta giovane corrispondente del Corsera, la descrive così: «due occhi impenetrabili, le labbra socchiuse, senza espressione, in un viso tondo quasi privo di rughe. Figlia di un ex segretario comunale di Montefalcione, educata secondo i più tradizionali principi religiosi, Maria Diletta Pagliuca è stata la più giovane madre superiora elisabettina a dirigere un istituto per handicappati ad Assisi. Dopo aver abbandonato la tonaca ha diretto due istituti per ciechi e infine il lager di Grottaferrata dove è stata travolta dalle polemiche e dalle inchieste sulle sevizie patite da decine di bambini ospiti. Nel carcere di Santa Scolastica a Perugia ha accettato la sua condizione di reclusa senza recriminare troppo. Ma chi l’ha incontrata racconta che il suo carattere non è affatto cambiato: fredda, a volte arrogante, ma sempre precisa e puntigliosa».