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«Un uomo assediato». Eugenio Scalfari sull’eredità di Enrico Mattei (1962)

Redazione Spazio70

«Avendo impegnato tutte le sue energie nel tentativo di trasferire dal dominio dei privati a quello dello Stato uno strumento di produzione e di ricchezza formidabile come quello delle fonti energetiche, egli dovette combattere la sua più dura battaglia proprio contro lo Stato, che per gran tempo sembrò subordinato a quegli stessi privati interessi contro i quali era diretta l'azione di Mattei»

di Eugenio Scalfari (L’Espresso, 4 novembre 1962)

Ora è facile mostrarsi obbiettivi parlando di Enrico Mattei. Dai necrologi pubblicati nei giorni immediatamente successivi alla sua drammatica scomparsa è impossibile distinguere quelli che in vita gli furono acerbamente ostili da quelli che gli furono servilmente devoti: la morte ha spento i toni della polemica ed ha forzato tutti ad uno stesso linguaggio di commosso rispetto verso un uomo cui si riconoscono genialità, disinteresse personale, immense capacità di lavoro e grande amore per il proprio Paese.

Ma un tentativo d’interpretazione politica di questo sconcertante personaggio e un esame dei problemi terribilmente difficili che egli lascia in eredità ai suoi successori non sono ancora stati fatti. Forse perché uomini, gruppi economici e partiti politici si stanno ansiosamente ponendo in questi giorni il problema dell’eredità di Mattei, nessuno ama parlarne; così, dopo le furibonde polemiche che hanno accompagnato la sua vita, assistiamo oggi ad un generale accordo per imbalsamarne il personaggio, sostituendo il libello e la piaggeria con la solennità ufficiale che la pubblicistica italiana non ha mai lesinato, dopo morti, agli uomini definiti come le forze vive della Patria.

«L’EREDITÀ» DI MATTEI

Eppure bisognerà decidersi ad affrontare un argomento così attuale e così delicato come l’eredità di Mattei: è un’eredità attiva? È un’eredità fallimentare? Il successore dovrà continuare la sua politica? O dovrà adottarne una completamente opposta? In quest’uomo così coraggioso nell’affrontare gli ostacoli, così insofferente di controlli e discipline, così profondamente posseduto dall’ossessione del proprio lavoro e della propria creatura, è stato insomma utile o nefasto allo Stato italiano?

Sono stati scritti moltissimi articoli e pronunciati innumerevoli discorsi negli anni passati per rispondere a queste domande; ma pochi hanno colto il significato della situazione paradossale di cui Mattei è stato protagonista. Avendo impegnato tutte le sue energie nel tentativo di trasferire dal dominio dei privati a quello dello Stato uno strumento di produzione e di ricchezza formidabile come quello delle fonti energetiche, egli dovette combattere la sua più dura battaglia proprio contro lo Stato, che per gran tempo sembrò subordinato a quegli stessi privati interessi contro i quali era diretta l’azione di Mattei. La leggenda del presidente dell’IRI descritto come un grande feudatario in rivolta contro il potere centrale è nata così, da questa paradossale situazione che ha rispecchiato in notevole misura una realtà.

Certo, Mattei si è ribellato infinite volte allo Stato, inteso come astratta volontà della legge, e al governo, sua concreta incarnazione. Dette esempio di disobbedienza fin dai primi giorni della sua nomina a commissario dell’Agip. In quei lontani mesi dell’estate 1946 durante i quali ciascuno tentò di far valere la propria legge al di sopra di quella generale che pareva essere rimasta sommersa dalla catastrofe della sconfitta e della guerra civile. Gli era stato dato l’ordine dal governo di liquidare al più presto l’azienda, vendendola ai privati a qualunque condizione purché si riuscisse a ricavarne qualche decina di milioni a vantaggio del Tesoro. Marcello Soleri, allora ministro del Tesoro, insisteva perché si facesse presto, preso dall’ansia, che ne affrettò di lì a poco la morte, di riparare con ogni mezzo al fallimento finanziario che sembrava imminente ed inevitabile. Mattei invece rifiutò; rifiutò contro la volontà della legge che aveva decretato la liquidazione dell’Agip e contro la volontà del governo che voleva che la legge fosse eseguita.

La sua disobbedienza comincia da allora e da allora s’apre il caso, abbastanza unico nella storia italiana, di un’azienda pubblica le cui decisioni si sono ripetutamente scontrate con quelle del governo, riuscendo spesso a prevalere su di esse. Ciascuno dei due riteneva d’essere l’interprete genuino degli interessi generali e, anche se questa pretesa è stata illegittima da parte di Mattei, esistono fondate ragioni per ritenere che essa non fosse del tutto assurda.

UN DIRIGENTE «DISOBBEDIENTE»

Una sera, pochi giorni fa, Mattei mi invitò a cena in una saletta dell’albergo romano dove abitava ormai da anni. Non lo incontravo da molti mesi ed è stata quella l’ultima volta che l’ho veduto. Lo trovai cambiato, più dinamico di quanto già abitualmente non fosse, ma con un dinamismo che sembrava tradire un’incertezza nuova in lui, un’insicurezza che non gli conoscevo. Parlò a lungo del centro-sinistra, della programmazione, dei compiti che ne sarebbero venuti alle aziende pubbliche: tutte cose che egli aveva per anni sostenuto e aiutato in cento modi e che, ora che stavano finalmente per diventare una realtà, gli sembravano estranee e quasi ostili.

Poi, come spesso gli accadeva in quelle conversazioni guidate soprattutto dal filo dell’amicizia, si lasciò andare alle confidenze e ai ricordi. Mi raccontò di quando, una decina di anni fa, decise di iniziare un’azione in grande stile nel settore del gas in bombole, che fino a quel momento era stato completamente dominato dalla Liquigas, una potente società controllata dal senatore democristiano Teresio Guglielmone. Per battere il concorrente e far penetrare le bombole dell’Agipgas fin nei più lontani casolari di montagna, Mattei prese un’iniziativa molto audace: abolì il deposito di diecimila lire che ogni cliente fino ad allora aveva dovuto versare in cauzione per avere le bombole di gas.

Il colpo era forte per l’avversario che amministrava alcuni miliardi di cauzioni e non aveva nessuna intenzione di privarsene. Guglielmone andò a trovare Mattei e cercò di convincerlo a rinunciare alla sua iniziativa, ma senza riuscirvi. Il colloquio finì bruscamente e Guglielmone minacciò di appellarsi al partito democristiano (del quale era stato fino a poco tempo prima vicesegretario amministrativo) e al governo. Infatti, quando Mattei presentò ufficialmente la sua proposta di abolire le cauzioni al comitato interministeriale che presiedeva alla politica dell’ENI, si trovò di fronte ad un parere negativo e all’invito di rinviare l’attuazione dei suoi progetti. Anche quella volta però egli disubbidì: la cauzione per le bombole di gas fu abolita, la concorrenza in quel settore che prima era monopolizzato da un solo gruppo si scatenò violentissima e i prezzi del gas liquido discesero rapidamente, favorendo la diffusione del consumo.

È probabile che, in quella come in altre analoghe occasioni, Mattei abbia operato soprattutto sotto la spinta degli interessi della sua azienda, per affermarla sul mercato contro concorrenti più forti e per dilatarne le dimensioni. Ma, quali che fossero le sue motivazioni, è certo che i risultati obbiettivi da lui raggiunti andavano nella stessa direzione dell’interesse dei consumatori, dovendo spesso superare l’ostilità del governo che avrebbe dovuto essere invece il primo a sollecitarli.

Situazioni molto simili a questa si verificarono infinite volte nei sedici anni durante i quali Mattei costruì pezzo per pezzo il più forte gruppo di industrie pubbliche che lo Stato italiano abbia mai avuto. Oggi il gruppo comprende 80 società, impiega 34.000 dipendenti, produce sei miliardi e mezzo di metri cubi di metano, possiede raffinerie, navi cisterne, circuiti di distribuzione di carburante in Italia e in molti altri paesi in Europa, in Africa e nell’America Latina. Gli avversari di Mattei hanno tentato di impedire con ogni mezzo questa espansione che ha avuto del miracoloso per la rapidità con cui si è svolta ed hanno accusato lo Stato italiano di favorire indebitamente l’ENI e di violare i principi di una concorrenza leale. Ma la storia dell’ENI in questi sedici anni, per chi voglia esaminarla a fondo e con obbiettività, annovera molto più frequentemente esempi di contrasto tra Mattei e il governo che non di favoreggiamento.

«CIRCONDATO DA NEMICI»

Per ottenere la concessione esclusiva dei giacimenti metalliferi e petroliferi della Valle Padana le resistenze più forti le ebbe dall’interno del governo e dalla stessa Democrazia Cristiana, e furono superate soltanto per la fermezza con la quale Ezio Vanoni si schierò a fianco di Mattei. Per arrivare all’approvazione di una legge petrolifera che ricalcava gli ordinamenti esistenti in paesi come gli Stati Uniti ed il Canada, fu necessaria la pressione congiunta dei partiti d’opposizione e di Mattei contro un governo immobilizzato da contrastanti interessi tendenti a bloccare e a deformare il disegno di legge. Per consentire all’ENI di acquistare il petrolio russo e lavorarlo nelle sue raffinerie a condizioni di prezzo nettamente migliori di quelle esistenti sul mercato internazionale c’è voluto una specie di colpo di forza, un fatto compiuto creato da Mattei e di fronte al quale i politici non hanno più saputo o potuto dire di no. E così in tutte le occasioni: ogni passo avanti dell’azienda dello Stato, ogni accrescimento del patrimonio pubblico nell’industria degli idrocarburi è stato fatto contro lo Stato, quasi violentando la possibilità di governi timidi se non addirittura ostili.

Naturalmente questa situazione paradossale ha creato inconvenienti gravi, che col passare degli anni sono andati aumentando. Mattei si era talmente convinto di rappresentare l’interesse generale di fronte ad un’autorità politica insufficiente o, peggio, dominata da interessi particolari, da ignorare spesso le istruzioni che gli venivano impartite e i controlli che la legge aveva stabilito per armonizzare la politica delle aziende pubbliche con la politica economica generale. Per vincere le resistenze che gli venivano opposte dai politici, aveva finito anche lui per mescolarsi alla vita dei partiti, sostenendo alcune correnti contro altre, suggerendo o avversando candidature, stringendo alleanza con certi ministri e dichiarando guerra ad altri.

La sua psicologia era, a poco a poco, diventata quella d’un uomo che si vede circondato da nemici ed ostacolato in tutti i suoi movimenti; molte delle sue iniziative portano il segno di questa psicosi dell’assedio ostile, che per sopravvivere bisogna rompere ad ogni costo e impiegando qualunque mezzo. Nell’Italia del centrismo, della routine e del piccolo sottogoverno affaristico utilizzato quasi sempre per scopi personali e di clientela, Mattei è stato una forza autentica di rottura, con tutti i pregi e i difetti che ne sono derivati.

Ad un certo punto, per difendere l’opera dell’azienda da lui creata, per garantire l’espansione sentì addirittura il bisogno di fondare un giornale col quale controbattere le voci dei suoi avversari che disponevano della quasi totalità dei giornali italiani. Nacque Il Giorno e fu uno dei casi più clamorosi che abbiano turbato e resa perplessa l’opinione pubblica italiana. Era legittimo che, andando molto al di là dei compiti assegnatigli dalla base, un ente pubblico sorto per la ricerca e la coltivazione degli idrocarburi si occupasse di giornali e s’improvvisasse anche editore? Era corretto che alcuni miliardi di proprietà pubblica venissero impiegati a questo scopo, senza che nessuna decisione ufficiale fosse intervenuta da parte degli organi che avrebbero dovuto responsabilmente prenderla?

Il dibattito durò a lungo, passò dai giornali all’aula di Montecitorio, mise in imbarazzo ministri e dirigenti di partito. Poi anche la vicenda de Il Giorno fu accettata e gli stessi avversari politici di Mattei smisero d’utilizzarla come pure avrebbero potuto. Fu anche quella un’azione di rottura di una situazione altrimenti immobile e monopolistica, un equivalente giornalistico di quanto era avvenuto nella Valle Padana per la ricerca del metano nello stabilimento di Ravenna che ruppe il monopolio esistente nel settore dei fertilizzanti.

È difficile dire se, senza le ribellioni di quest’indocile servitore degli interessi pubblici, l’equilibrio centrista sarebbe stato rotto e l’asse della politica italiana sarebbe riuscito a spostarsi a sinistra; ma è certo che la sua azione affrettò i tempi e contribuì fortemente al successo di quanti miravano, per ragioni diverse e con diversi mezzi, al medesimo risultato.

UN «SERVITORE INDOCILE» DELLO STATO

La scomparsa di Mattei, hanno scritto negli scorsi giorni tutti i giornali senza distinzione d’amici ed avversari, lascia un vuoto nella vita italiana; ma la verità è diversa e forse un poco più crudele. Quando la morte sopravviene improvvisa, la vita d’un uomo acquista un senso compiuto che ne consente l’interpretazione. Realizzandosi le cose per le quali egli combatté per tanti anni, la funzione di rottura da lui esercitata diventava sempre meno necessaria e quasi anacronistica. Aveva voluto la programmazione dell’economia, ma la programmazione lo avrebbe ridotto necessariamente ad un esecutore di ordini, ad un meccanismo subordinato d’un ingranaggio più grande di lui. Aveva aiutato la politica di centro-sinistra, ma proprio quella politica cominciava a creargli le più serie difficoltà della sua non facile carriera di dirigente d’industria.

Il 25 ottobre, appena quarantott’ore prima della sua morte, Financial Times pubblicò un articolo intitolato: Will signor Mattei have to go? (Se ne dovrà andare il signor Mattei?); «L’ironia della situazione – scriveva il Financial Times – è che tra i molti argomenti usati contro di lui c’è anche quello che egli non potrà adattarsi all’economia pianificata decisa dall’attuale governo di centro-sinistra. Egli è ora accusato d’autocrazia e alcuni tra i membri del governo più convinti della necessità della pianificazione affermano che è ormai necessario rimpiazzarlo con un esecutore più docile».

Il suo mandato di presidente dell’ENI sarebbe scaduto nel prossimo mese di marzo e probabilmente si sarebbe accesa, intorno al problema della sua riconferma, una delle più accanite battaglie politiche di questo periodo. Il disastro aereo di Bascapè ha evitato a Mattei di veder discussa la sua opera da quegli stessi uomini a fianco dei quali aveva per lungo tempo combattuto.

Ora il problema della successione è aperto. Mattei ha lasciato un complesso di sei o settecento miliardi di affari in corso, alcuni di sicuro vantaggio per l’azienda e per lo Stato italiano, altri più rischiosi e più incerti. Le sonde dell’ENI, oltre che nella Valle Padana e in Sicilia, cercano ed estraggono petrolio in Egitto, in Iran, in Somalia, nel Marocco, nel Sudan e in Tunisia. L’Agip, oltre al suo gigantesco circuito di distribuzione in Italia, ha collocato le sue stazioni di servizio nell’Iran, nel Ghana, in Gran Bretagna e nella Germania occidentale. Società controllate dall’ENI hanno cominciato la costruzione di un grande oleodotto che partendo da Genova e attraversando la Svizzera terminerà nella Baviera, dove sono in corso di costruzione due grandi raffinerie ad Ingolstadt e a Stoccarda. Un altro grandioso oleodotto di 1.140 chilometri è in corso di costruzione in India. Lavori di escavazione di pozzi e di costruzione di oleodotti sono in corso in Argentina per oltre sessanta miliardi di lire.

Tutte queste iniziative impegnano fortemente le finanze del gruppo e quelle dello Stato. Il pericolo è che, dopo sedici anni di straordinaria amministrazione come è stata quella che Mattei ha imposto all’ENI per assicurarne prima la nascita e poi lo sviluppo, si cada ora, per reazione, in una politica di eccessivo raccoglimento finanziario e di burocratica gestione del patrimonio esistente.

Ma, oltre a questo pericolo, ce n’è un altro più grave che dev’essere segnalato ed evitato. Mattei probabilmente ha aiutato la Democrazia Cristiana o almeno alcune correnti di essa; nessuno ha mai accertato la verità delle voci insistenti corse in proposito in cento occasioni, ma tutti sono disposti a giurare sulla loro fondatezza. Tuttavia egli non è mai stato (e questo è merito non piccolo) uno strumento del sottogoverno democristiano, di cui pure nello scorso decennio l’opinione pubblica ha visto clamorosi e sconcertanti esempi. Sarebbe assai grave se ad un servitore indocile dello Stato dovesse ora succedere un vassallo troppo docile ai desideri e agli interessi d’un partito.

Si chiude con la morte di Mattei l’epoca dei grandi capitani d’industria; il fenomeno s’estende anche all’industria privata, dove la direzione collegiale ed anonima prende sempre di più il posto delle individualità dittatoriali e geniali. Nel campo delle aziende pubbliche comincia il periodo dei commessi dello Stato. Il successore di Mattei, se la scelta sarà felice, non potrà che avere questa caratteristica.