Qui potrai trovare una vasta rassegna di materiali aventi ad oggetto uno dei periodi più interessanti della recente storia repubblicana, quello compreso tra la fine degli anni Sessanta e i primi anni Ottanta del secolo scorso.
Il sito comprende sei aree tematiche e ben ventidue sottocategorie con centinaia di pezzi su anni di piombo, strategia della tensione, vicende e personaggi più o meno misconosciuti di un’epoca soltanto apparentemente lontana. Per rinfrescare la memoria di chi c’era e far capire a chi era troppo giovane o non era ancora nato.
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Due ragazze meridionali: Tina Anzaldi, 24 anni, da San Mauro Castelverde, in provincia di Palermo, e Nicoletta Pellegrini, 16 anni, da Polignano a Mare, in provincia di Bari. Storie di emigrazione interna che hanno molti punti in comune. Entrambe emigrate al Nord, al seguito della famiglia, perché nei loro paesi mancava il lavoro, si sono rapidamente inserite in una realtà sociale completamente diversa da quella di partenza. Non hanno rimpianti, non soffrono di nostalgia: anzi, sono contente della scelta fatta perché dicono di sentirsi più libere.
Tina Anzaldi abita a Nichelino ed è impiegata presso una ditta di costruzioni edili del torinese. «La cosa più bella per me», dice, «è che anche io posso lavorare: in Sicilia, nonostante i cambiamenti evidenti nel campo del costume e della mentalità in genere, la donna che esce dal suo guscio casalingo è guardata ancora con sospetto. E questo succede soprattutto nei paesini della provincia. Qui mi sento, invece, a mio agio: ho moltissimi amici piemontesi e sono veramente felice. Sento di appartenere a una società moderna, nella quale non esistono differenze fra uomo e donna. Insomma, qui mi sento viva».
Nicoletta Pellegrini vive invece a Torino e di mestiere fa la commessa in una drogheria. «Avrei voluto continuare a studiare», dice la sedicenne, «ma le condizioni della mia famiglia non me l’hanno consentito. Così ho cercato un posto di lavoro e l’ho trovato. Al mio paese questo non sarebbe stato possibile, perché il lavoro manca anche per gli uomini. Dalle mie parti le donne non lavorano perché devono soltanto badare alla casa e occuparsi dei figli che mettono al mondo. A Torino, invece, mi trovo bene: vorrei sposare un piemontese, perché mi piace il carattere della gente di qui forse un po’ chiuso però anche romantico. Non è vero che esistano pregiudizi verso noi meridionali. Almeno fra noi giovani andiamo tutti molto d’accordo».
A fine anni Sessanta, la redazione torinese de «La Stampa» riceve molte lettere al giorno: tra queste ce n’è una spedita da una donna di Benevento, emigrata nel capoluogo piemontese con il marito e i figli di sei e otto anni. «Lui non riusciva a trovare lavoro», scrive, «così abbiamo deciso di venire al Nord. Da due anni vivo in questa città con la mia famiglia: abbiamo avuto fortuna perché mio marito ha trovato subito lavoro, prima in un cantiere poi in una fabbrica. Viviamo in un alloggio modesto, ma confortevole. Qui possiamo anche concederci quelle cose che a Benevento ci erano negate: il televisore e il cinematografo una volta alla settimana».
«Adesso però siamo preoccupati», scrive la donna: «quando siamo saliti al Nord, mio figlio maggiore aveva appena terminato la prima elementare ed era stato promosso. L’anno scorso l’ho quindi iscritto alla seconda ed è stato bocciato. Quest’anno ripete, ma il direttore della scuola mi ha detto che è molto indietro. Mi ha detto anche che è colpa dell’insegnamento ricevuto quando faceva la prima. Sono rimasta sbalordita perché quando eravamo a Benevento mio figlio era uno dei migliori della sua classe. Qui pare invece che sia diventato un asino».
«Possibile che ci sia tanta diversità di insegnamento tra Nord e Sud?», si chiede la lettrice concludendo la missiva: «Perché i nostri ragazzi, nelle scuole di Torino, devono sempre essere messi all’ultimo posto? Scusate lo sfogo, ma vorrei avere una risposta a questi interrogativi che angustiano molte madri meridionali».
Tra le tante lettere, è interessante anche quella di un operaio di Taranto che scrive: «Sono a Torino da quattro mesi e lavoro alla Fiat. Per le ferie sono tornato in Puglia e ho poi portato mia moglie a Torino. Adesso abitiamo in una stanzetta che una vecchia vedova ci affitta per 15 mila lire al mese. La mia bambina di 16 mesi è rimasta giù a Taranto, dai nonni, ma non avendo l’affetto dei genitori si deprime: è sempre triste e malata. Ogni giorno vado in giro per trovare una casa, ma non me la vogliono affittare. Quando trovo un appartamentino che può fare al caso mio, mi sento dire che non me lo affittano perché ho dei figli. Ne trovo un altro, anche più costoso, e mi dicono chiaro e tondo che non affittano a meridionali».
«Dicono che il razzismo c’è in America», continua l’operaio, «ma io posso affermare che esiste anche in Italia e proprio nel civilissimo Piemonte. Sei un meridionale? Arrangiati. Io ho lavorato anche all’estero e lì tutti ci trattavano bene. E se capitava di incontrare qualche turista italiano, anche piemontese, ci offriva da bere e ci chiamava pure “paisà”. Però, qui a casa loro, non ci vogliono. Noi soffriamo già perché siamo costretti a vivere lontani da casa, dalla nostra gente. Perché umiliarci ancora in questo modo?»
[Da una inchiesta del quotidiano «La Stampa», 12 dicembre 1969]