logo Spazio70

Benvenuto sul nuovo sito di Spazio 70

Qui potrai trovare una vasta rassegna di materiali aventi ad oggetto uno dei periodi più interessanti della recente storia repubblicana, quello compreso tra la fine degli anni Sessanta e i primi anni Ottanta del secolo scorso.
Il sito comprende sei aree tematiche e ben ventidue sottocategorie con centinaia di pezzi su anni di piombo, strategia della tensione, vicende e personaggi più o meno misconosciuti di un’epoca soltanto apparentemente lontana. Per rinfrescare la memoria di chi c’era e far capire a chi era troppo giovane o non era ancora nato.
Buona lettura e non dimenticare di iscriverti sulla «newsletter» posta alla base del sito. Lasciando un tuo recapito mail avrai la possibilità di essere costantemente informato sulle novità di questo sito e i progetti editoriali di Spazio 70.

Buona Navigazione!

Nasser e gli altri. I paradossi del socialismo arabo degli anni Sessanta

Redazione Spazio70

Da un articolo pubblicato su «L'Astrolabio» (1963)

Di Luigi Vismara

Diciamo la verità: quando in Occidente si sente parlare di socialismo arabo la prima reazione è quanto meno di aperta diffidenza. È il riflesso di una certa miopia intellettuale, di una purtroppo diffusa ignoranza dei problemi che pure urgono al di là della porta di casa nostra, se non addirittura, come accade in molti casi, della interessata tendenza a deformare quelle che potremmo definire le “realtà scomode”. Lo stesso nazionalismo arabo è da noi considerato un fenomeno esclusivamente politico anziché sociale; figuriamoci dunque quando si parla di socialismo, una dottrina sulla quale la stessa Europa sta aspramente polemizzando da oltre mezzo secolo senza esserne ancora venuta a capo.

Quello arabo è, tutto sommato, un socialismo giovane e anche un po’ particolare: non deve quindi stupire se i fermenti che lo agitano sfuggono talvolta a classificazioni precise. Ma esiste, come ideologia e come forza organizzata, e ne è depositario il Baas, vale a dire il Partito socialista della resurrezione araba. Sorto nel 1947 questo partito ha conosciuto crisi e divisioni, successi e disfatte, persecuzioni e lotte durissime. Ha insomma intimamente vissuto gli anni di fuoco della storia araba dalla fine della guerra ad oggi, ed ora, appena tollerato nel Libano, clandestino e perseguitato in Egitto, nell’Arabia Saudita, in Libia e in Giordania, si trova al potere in Siria e nell’lrak.

Perché una delle caratteristiche del Baas è quella di non essere un partito nazionale bensì un movimento interarabo. L’istanza suprema del Baas è infatti il Comitato Centrale che potremmo chiamare «internazionale» e che raggruppa gli esponenti dei Comitati Centrali di ciascun partito “nazionale” o, se si preferisce, “regionale “. È possibile che all’interno dei rispettivi Paesi i vari movimenti Baas adottino tattiche e strumenti diversi, ma tale “autonomia” non può prescindere dalle impostazioni finalistiche di tutto il partito né dalle direttive generali che vengono concordate a livello interarabo.

L’IDEOLOGIA SOCIALISTA DEL BAAS

Il Baas è organizzato come tutti i partiti di massa occidentali, con cellule, sezioni e federazioni. Un’organizzazione ovviamente ancora lacunosa e talvolta rudimentale, tuttora clandestina anche nei due Paesi dove ha conquistato il potere. È questa una conferma della sostanziale instabilità politica del mondo arabo e della possibilità di improvvisi quanto imprevedibili rovesciamenti di fronte: una costante, se vogliamo, non già della immaturità politica degli arabi, quanto piuttosto dei continui e pericolosi intrighi orditi dalle grandi Potenze con il concorso di determinate forze locali.

E non possiamo che risalire alle responsabilità delle grandi Potenze se vogliamo approfondire e precisare la realtà di una autentica rivoluzione che sta plasmando, tra difficoltà di ogni genere, un mondo arabo nuovo, laico e pianificato. L’unità araba è l’idea motrice del processo evolutivo in atto dalla fine della seconda guerra mondiale e il cui inizio coincide con il tramonto della cosiddetta “politica dei Mandati” con la quale, dopo il 1918, Inghilterra e Francia si spartirono le spoglie dell’impero ottomano. Essa si è sviluppata per gradi: innanzitutto attraverso l’indipendenza dei singoli Stati arabi, poi con la loro completa emancipazione sul piano politico, economico e sociale, infine con la costituzione di un’unica Nazione araba.

Tutto questo, naturalmente, sul piano teorico. Su quello pratico, invece, le cose vanno diversamente: sia, come s’è detto, per le resistenze delle grandi Potenze coloniali, sia per la comparsa, anche in questa zona, degli interessi strategici dell’Unione Sovietica e degli Stati Uniti, sia, infine, per gli errori commessi dagli stessi dirigenti arabi. L’elencazione delle cause che hanno ostacolato questo processo sarebbe però gravemente lacunosa se fra esse non considerassimo la presenza dello Stato di Israele, un problema tra i più drammatici e complessi della storia contemporanea e dalla cui soluzione dipende l’avvenire non solo del mondo arabo propriamente detto, ma di tutto il Medio Oriente.

L’aspirazione unitaria degli arabi si basa su un insieme di profondi legami comuni: la lingua, la cultura, le tradizioni, la religione. Se a ciò si aggiungono concreti interessi politici, economici e sociali si potrà capire quanto impetuoso e irreversibile possa essere il sentimento comunitario che ha scosso fin nelle fondamenta un mondo che sembrava sprofondato nel passato. La rivoluzione araba presuppone il concetto di Nazione, di “unità di popolo” e come tale, quindi, si caratterizza come moto risorgimentale: non averlo compreso è stato un gravissimo errore da parte dei Governi occidentali anche se è forte il sospetto che non si sia trattato di un errore di interpretazione, bensì di un calcolo. Tale rivoluzione, infatti, non si prefigge soltanto tutta una serie di profonde riforme strutturali interne, ma ha come obiettivo primario e fondamentale il rovesciamento dei rapporti esterni fra i singoli Paesi e le Potenze dominanti. Essa, cioè, rifiuta il cosiddetto “ordine costituito” e rivendica interamente per sé il diritto a colmare quello che per comodità è stato definito “vuoto di Potenza”.

È questa duplice strategia che dà al nazionalismo arabo la sua più genuina sostanza rivoluzionaria. Un nazionalismo, cioè, che non è fine a se stesso, che non si arresta alla conquista dell’indipendenza politica, così spesso puramente formale, ma vuole anche e soprattutto assicurarsi una indipendenza economica che sola può garantire le indispensabili riforme sociali. Non è quindi gratuito o arbitrario il richiamo al socialismo comune in tutti gli atti e i discorsi dei principali dirigenti arabi, Nasser in testa. Certo è estremamente difficile e complesso precisare le tendenze socialiste del nazionalismo arabo in particolare sotto l’aspetto dottrinario. Ma se è quasi impossibile ricercare un coerente filone ideologico, è abbastanza facile rendersi conto che l’impegno programmatico della moderna élite araba è fortemente impregnato di principi socialisti.

Non si deve d’altra parte dimenticare la profonda differenza esistente fra il mondo occidentale e quello arabo e l’errore che ogni volta commettiamo cercando di confrontarle per avere una misura della situazione reale. Nessun confronto è possibile. In Occidente, fin dagli inizi del secolo, esisteva una società strutturalmente ben definita in classi sociali, già fortemente industrializzata e nella quale il termine di lotta aveva una sua precisa definizione: da un lato i profitti e dall’altro il lavoro, da una parte l’accumulazione capitalistica e lo sfruttamento, dall’altra l’emancipazione e il diritto a un’equa ridistribuzione della ricchezza.

Nel mondo arabo, ancora oggi, la situazione è completamente diversa: se si escludono i feudatari, pochi e ricchissimi, la classe dominante è costituita dai commercianti, dai funzionari e dai professionisti: un insieme di piccoli interessi precostituiti che la massa miserabile e analfabeta dei contadini e dei pastori non riesce a delimitare e a circoscrivere e, quindi, a colpire. Non esiste un’industria e gli unici beni che lo Stato può nazionalizzare sono quelli stranieri. Il problema, quindi, a differenza di quanto è avvenuto in altre parti del mondo, non è quello di nazionalizzare i mezzi di produzione bensì di crearli. Ma per fare ciò occorrono investimenti, capitali: e il mondo arabo non ha niente ad eccezione del petrolio.

Ecco, il petrolio può essere la chiave di volta dell’intera economia araba, ma per ora tale risorsa è nelle mani delle compagnie straniere. Nazionalizzare i pozzi petroliferi è certamente nel programma dei dirigenti arabi, ma essi pare intendano procedere gradualmente. Dapprima creando tecnici e mano d’opera specializzata in grado di assicurare il processo estrattivo, poi accordandosi per le vendite con i Paesi importatori. La loro preoccupazione, infatti, è quella di non fare coincidere la nazionalizzazione con l’arresto della produzione e il blocco delle vendite nel qual caso, sostengono, nazionalizzare sarebbe inutile e dannoso in quanto le attuali royalties, pur modeste e inadeguate, costituiscono la sola voce attiva del bilancio dello Stato.

Laddove, invece, i principi socialisti potrebbero essere applicati senza esitazione — cioè in campo agricolo — sorgono altre difficoltà. L’istinto della proprietà in un mondo sottosviluppato e sottoalimentato è più forte che altrove e acuito, talvolta esasperato, dalla presenza di un istituto tribale che vede nello Stato il tradizionale nemico. La riforma agraria, tuttavia, rappresenta forse il primo atto di tutti i regimi nazionalisti, ma se l’enunciazione del principio della ridistribuzione della terra è rapido ed esplicito, la sua applicazione è lenta e contrastata. Una volta decisa la riforma, quindi, ci si affida a soluzioni empiriche che stanno generalmente a mezza strada fra la costituzione di grandi cooperative collettivistiche e un regime rigidamente statalistico.

In sostanza, il socialismo arabo non può fare propri i principii del socialismo europeo o occidentale, ma deve piuttosto ricercare dei moduli originali che più si adattino alle caratteristiche della società in cui deve operare senza per questo perdere di vista o snaturare la matrice ideologica alla quale si ispira. “Dobbiamo nazionalizzare il socialismo”, amano ripetere i giovani e dinamici esponenti dei nuovi regimi nazionalisti, e per quanto queste parole possano assumere ambigui e talvolta sinistri significati, esse tuttavia traducono con chiarezza le imperative necessità di una società e di una epoca.

Un socialismo di tipo riformista dunque? Può essere, ma non si tratta certo di una nuova versione socialdemocratica anche se – come abbiamo già detto – è assai difficile racchiuderlo entro classificazioni precise.

IL SOCIALISMO DEI MILITARI

Può anche apparire strano, ai nostri occhi, che uno degli strumenti di questo socialismo sia, in tutti i Paesi arabi, l’esercito. Ma se ben si osserva in profondità, questa “anormalità” finisce per scomparire. Durante la dominazione straniera, infatti, la carriera militare è stata la sola ad attrarre gli elementi più dinamici e preparati del mondo arabo: non vi erano altre alternative per poter esercitare le singole capacità o per uscire dal chiuso di un’esistenza sprofondata nel medio evo. L’esercito, perlomeno al vertice, si è quindi trasformato in una palestra di esercitazioni teoriche dove i giovani che avevano studiato e che vivevano a contatto diretto con i rappresentanti del mondo occidentale potevano scambiare le loro idee, mettere a confronto e approfondire le loro conoscenze.

È stato sotto le armi, dunque, che il nuovo arabismo è cresciuto e si è irrobustito, dapprima coltivando l’aspirazione a liberarsi dalla dominazione straniera, poi elaborando, magari in termini confusi, quelle future soluzioni di ricambio che non potevano ovviamente prescindere da questi tre punti fermi: libertà, unità, socialismo. La libertà per un singolo Paese — tenendo sempre presente l’esistenza degli interessi politici ed economici dell’imperialismo — sarebbe stata cosa precaria ed esposta ad ogni minaccia di sovversione. Di qui la necessità di concepire questa libertà solo ed esclusivamente nel quadro di una completa unità del mondo arabo.

Ma anche questi due principi cosi strettamente interdipendenti non avrebbero potuto trovare pratica applicazione se, nel contempo, non si fossero trovate soluzioni interne comuni in grado di rovesciare radicalmente l’antica e arcaica struttura della società. Un popolo che vuole liberarsi dalla tutela straniera deve anche essere in grado di reggersi economicamente in maniera indipendente. Di qui la necessità di fare del nuovo Stato “lo strumento indispensabile e giusto per dirigere e promuovere lo sviluppo di tutte le risorse umane e materiali di un Paese”. Quindi, libertà, unità e socialismo come principi assoluti e indissolubili.

E non è un caso che in Egitto, in Siria e nell’Irak la rivoluzione sia stata fatta dai militari sia pure, in particolare negli ultimi due Paesi, sotto la direzione dei politici. “I militari — sostiene il Primo ministro siriano Salah Bitar — sono oggi lo strumento del potere politico”, il che però è vero fino ad un certo punto in quanto, proprio per le ragioni che abbiamo accennato, l’esercito è di per sé un movimento politico. Un movimento che, in Siria e in Irak, è in contrasto con i socialisti del Baas non tanto sulle finalità della rivoluzione quanto sui tempi. E in ciò l’esercito è “nasseriano”.

I CONTRASTI TRA NASSER E IL BAAS. IL PROBLEMA ISRAELE

Fra il Baas e Nasser, infatti, esiste una profonda divergenza circa la gradualità del processo unitario e contrariamente a quanto si ritiene in Occidente è proprio Nasser a fare da freno. È quanto meno difficile considerare il Presidente egiziano come un socialista, ma gli obiettivi che egli si è posto non possono che condurre, di fatto, a una società di tipo socialista. Nasser, inoltre, è l’uomo di maggior prestigio del mondo arabo, è stato lui a dare il colpo di grazia all’imperialismo, ed è stato ancora lui il primo a parlare in termini di unità. È quindi con Nasser che si devono fare i conti oggi e il Baas, che pure cerca di imporsi come un’alternativa democratica e progressista al “nasserismo”, non lo dimentica. Ma proprio per questo, mentre il Baas cerca di affrettare i tempi dell’unità araba per impedire che di questa unità il “nasserismo” diventi la sola forza ideologica, Nasser, di contro, cerca di rallentarli per la ragione opposta. Per il Cairo, tutto sommato, si tratta di guadagnare tempo.

Ma vi è anche un’altra ragione per la quale gli egiziani temporeggiano, ed è Israele. Nasser, infatti, sa benissimo che l’unità araba non può dirsi compiuta se non con la partecipazione di tutti i Paesi arabi, Giordania compresa. Ma sa anche, altrettanto bene, che una modifica in tal senso dello status quo giordano provocherebbe l’immediata reazione di Israele e dei suoi alleati occidentali. Anche il Baas lo sa, ma sembra che questo partito rifiuti di condizionare il contenuto ideologico dei propri programmi alla realtà politica del momento ed inoltre considera il problema israeliano sotto il profilo della “decolonizzazione”. Per il Baas, infatti, l’unità araba presuppone la scomparsa di Israele come Stato, e siccome l’unità è una parte di quel tutto indissolubile che è la rivoluzione araba, ecco che se si vuole il socialismo e la libertà, dunque l’unità, non si può non affrettare la «soluzione» del problema israeliano.

Nasser e Israele sono dunque i due poli entro i quali si muove il socialismo arabo; due poli che, alternativamente, lo sollecitano e lo rallentano. Da nessuno dei due si può prescindere e solo nella misura in cui il Baas riuscirà, con metodi democratici, a neutralizzarli e successivamente ad imporsi come unica forza progressista del mondo arabo, si potrà avere la conferma o meno della validità delle sue attuali aspirazioni. Ma un discorso sul socialismo arabo, sui suoi complessi e difficili rapporti con il mondo interno ed esterno, richiede ovviamente un esame più approfondito e dettagliato che varrà la pena di fare in un’altra occasione.