Qui potrai trovare una vasta rassegna di materiali aventi ad oggetto uno dei periodi più interessanti della recente storia repubblicana, quello compreso tra la fine degli anni Sessanta e i primi anni Ottanta del secolo scorso.
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Black Power nacque come un grido rivoluzionario. Oggi è soltanto uno slogan di moda con mille significati. “Ciò che è ormai conosciuto come Black Power dev’esser inteso nei termini delle idee e dei personaggi che lo hanno preceduto. Black Power è, in realtà, una sintesi di tutte le idee nazionalistiche contenute nella doppia coscienza dell’America Nera. Ma non ha alcun significato specifico. E’ piuttosto una sorta di sensazione, di risposta emozionale alla propria storia”. Così scrive Larry Neal nell’antologia “Black Fire”. Stokely Carmichael disse che i diritti civili erano morti quando Johnson cantò “We shall overcome”. Oggi, dopo che Nixon ne ha parlato favorevolmente, “Black Power — dicono le Pantere nere — è diventato rispettabile, s’è imborghesito”. Il loro motto è adesso “Power to the People”, Potere al Popolo. Black Power è diventato quindi la formula sotto cui si celano le più varie formulazioni politiche. Ma anche quando sta per sviluppo separato e autogestione culturale ed economica non è più sovversivo, non sfida alcun fondamento del sistema di potere esistente; anzi, può favorire quella tendenza all’ammodernamento e alla razionalizzazione divenuta sempre più necessaria.
Per questo Black Power è diventato, come Black Capitalism, la politica ufficiale dell’Amministrazione Nixon. Nell’idea del capitalismo nero non c’è niente di nuovo, niente di rivoluzionario. L’idea è vecchia quanto lo stesso problema negro. Alla fine del ‘700 due leaders neri di Philadelphia organizzarono una Free African Society il cui scopo era di creare una base economica autonoma nelle comunità di colore. Gruppi del genere sorsero in varie città del nord, ma non andarono ovviamente molto lontano. All’inizio di questo secolo, un altro famoso leader nero, Booker T. Washington, presidente della Lega Nazionale del Commercio Nero, elaborò la teoria della cosiddetta autosufficienza nera, e le sue idee vennero riprese da Marcus Garvey. Tutto fini in un gran fiasco quando Garvey tentò di organizzare una società di navigazione finanziata esclusivamente da neri, il cui scopo era quello di organizzare il “grande ritorno” nella terra madre d’Africa. Migliaia di neri vi persero tutti i risparmi della loro vita.
Recentemente sono stati i musulmani Neri, sotto la leadership di Elijah Muhammad, a mettere in pratica questa filosofia del capitalismo e oggi posseggono catene di negozi, aziende, fattorie. Lo stesso giornale dei musulmani, “Muhammad Speads”, di cui si vendono settimanalmente 385.000 copie, è un ottimo esempio di azienda in attivo. Malcolm X si rese conto delle equivoche implicazioni del capitalismo nero e anche questo fu uno dei motivi della sua rottura con i musulmani. In un discorso alla Audubon Ballroom di Harlem, dove poi sarebbe stato assassinato, diceva: “Non si può far funzionare un sistema capitalista senza essere degli avvoltoi; bisogna aver qualcuno a cui succhiare il sangue per essere capitalisti”.
Questo problema del controllo economico delle comunità di colore e del suo significato è al centro della polemica che divide attualmente la leadership nera. E’ la linea cruciale che divide le forze di Black Power fra nazionalisti e rivoluzionari. La posizione dei primi è che i neri devono ritrovare la loro identità; avere una loro indipendenza anche economica riscoprire una loro cultura (ricercando le radici africane). I rivoluzionari sostengono che le richieste dei nazionalisti sono solo una componente della lotta politica e che sostanzialmente il problema dei neri è un problema di sfruttamento della società capitalista, che ha usato del razzismo per perseguire i propri interessi economici.
I gruppi nazionalisti sono diversi e comprendono i musulmani neri, l’organizzazione di Le Roi Jones a Newark, quella di Ron Karenga, chiamata US, a Los Angeles, quella detta Revolutionary Republic of Africa ad Harlem, e altre minori sparse in tutto il paese. Il motivo anti-bianco è una costante, pur con vari livelli d’intensità, in tutte queste organizzazioni. La posizione rivoluzionaria è sostanzialmente rappresentata dal Partito delle Pantere Nere. L’analisi che questo fa delle posizioni nazionaliste è che sono sostanzialmente reazionarie, che hanno assunto come base politica ed economica il capitalismo, e che come tali vanno combattute. I rapporti fra i rappresentanti di queste due posizioni sono tesi e gli scontri frequenti. A Los Angeles due Pantere sono state uccise poco tempo fa da uomini dell’organizzazione US.
II dilemma fra riformismo e rivoluzione si complica nella strategia quotidiana della sopravvivenza nelle strutture del sistema. Ovviamente è valida la critica delle Pantere che rimproverano ai nazionalisti d’aver accettato l’invito a diventare capitalisti nella struttura del potere bianco. “Mettere più facce nere negli affari significa alla lunga solo cambiare il colore degli sfruttatori e creare gruppi di interesse che divideranno la popolazione nera”, scrive il settimanale del Black Panther Party.
Il programma del capitalismo nero è chiaramente inteso ad avere un effetto calmante sulle comunità di colore; l’idea è quella di creare una borghesia nera che svolga nei confronti della popolazione dei ghetti lo stesso ruolo che la borghesia bianca ha nella società capitalista. Qualsiasi struttura nera, dicono i militanti rivoluzionari, non sarà mai autosufficiente e dipenderà sempre dalla struttura di potere bianca fuori dal ghetto. Avere il controllo della distribuzione in Harlem ad esempio non significa eliminare il profitto dei rivenditori; e che i negozi siano posseduti da un soulbrother invece che da un commerciante ebreo o italiano non cambia il fatto che la frutta, la carne, il pane ecc. costino ad Harlem qualcosa come il 25 per cento in più che nei negozi di un’area bianca.
Il quadro storico in cui si sviluppa la crisi delle organizzazioni rivoluzionarie nere è il fallimento definitivo della speranza di assorbire con strumenti pacifici e riformistici la frattura razziale. Un fallimento non casuale, determinato dalla logica del sistema capitalistico e imperialistico americano, che ha ormai trasformato il rapporto tra la popolazione bianca e quella nera in un rapporto di guerra, non ancora combattuta ma certo dichiarata. Così scriveva Gunnar Myrdal, nel 1944, nell’ormai classica opera An American Dilemma: The Negro
Problema and Modem Democracy: “Il problema negro non è solo il più grande fallimento dell’America, ma anche la sua grande occasione per il futuro. Se l’America seguisse le sue più profonde convinzioni, il suo benessere interno aumenterebbe direttamente: e nello stesso tempo aumenterebbero il potere e il prestigio americano nel mondo… L’America è libera di scegliere se i negri debbano rimanere il suo passivo, o diventare la sua occasione storica”.
E’ passato esattamente un quarto di secolo. Il problema negro è tutt’altro che risolto e il crescente confronto dell’America bianca con il profondo malessere razziale rende oggi impossibile una ripetizione dell’analisi, in un certo senso ancora ottimistica, fatta da Myrdal. Il problema negro non è più un’occasione dell’America bianca. E’ e rimane una delle sue più gravi passività. Dal 1940 i neri non hanno migliorato il loro status professionale e non hanno in media migliorato il loro reddito rispetto ai bianchi dalla fine della guerra. Una famiglia nera nel 1967 aveva un reddito medio di 4939 dollari annui contro gli 8318 dollari di una bianca. La disoccupazione fra i negri nel 1968 è stata quasi del 7 per cento, e nei giovani neri ha raggiunto i| 25 per cento. Secondo una recente statistica la popolazione nera d’America è di 22 milioni, uguale all’11 per cento di quella totale. Se questi dati sono esatti, e le organizzazioni militanti li contestano sostenendo che esistono oggi in America almeno 30 milioni di neri, la popolazione di colore non sarebbe sostanzialmente aumentata in percentuale rispetto agli inizi del secolo quando era di 9 milioni sui 67 milioni totali. Il rapporto quantitativo fra la popolazione di colore e quella bianca è uno degli argomenti dei gruppi militanti neri i quali vedono nella politica di controllo delle nascite, che in verità è molto più incoraggiata nei ghetti che nei sobborghi bianchi, una forma di repressione della struttura di potere nei confronti delle minoranze di colore.
L’integrazione fra le due popolazioni ha fatto certamente dei passi, ma non con il ritmo che i tempi richiedono. Le guerre sono state, come scrive Myrdal, la migliore occasione per accelerare questo processo di integrazione. Il Vietnam ha dato l’ultimo contributo e il risultato è che la percentuale dei neri morti è stata superiore a quella dei bianchi. Sul piano teorico, l’accettazione di un uomo di colore ai vari livelli della società è un dato riconosciuto. Ma non consola i neri il fatto che, come una recente inchiesta Gallup ha dimostrato, il 67 per cento degli americani sia oggi disposto ad avere un presidente nero, contro il 38 per cento che si era dichiarato in tal senso nel ’58. Non li incoraggia perché, come un recente rapporto al Congresso ha reso noto, capita ancora che un soldato tornato dal Vietnam col grado di sergente e con uno stipendio di 554 dollari al mese riesca, nella vita civile, a trovare soltanto un lavoro manovale a 280 dollari al mese: semplicemente perché è nero. Scomparsa la discriminazione legale rimane quella psicologica e soprattutto quella
economica, il che continua a far operare quel meccanismo descritto da Myrdal di “inferiorità – pregiudizio – discriminazione”.
La situazione dei ghetti è andata man mano deteriorandosi negli ultimi decenni. “Gli aspetti patologici sono crescenti nei ghetti urbani del nord”, scrive nella Agenda For the Nation lo psicologo Kennet Clark, famoso per il suo libro Dark Ghetto. “La percentuale degli omicidi e la delinquenza in genere non è diminuita… Il sistema educativo nei ghetti è peggiorato”. Un numero crescente di bianchi si sposta dalle grandi città per andare a vivere nei sobborghi e i ghetti diventano sempre più desolati, tagliati fuori dal generale sviluppo. Il dottor Herman Miller, capo della divisione della popolazione dell’Ufficio del Censimento, ha recentemente dichiarato: “Uno dei fatti verificatisi dopo i riot è che l’indice dei bianchi che lasciano le città per i sobborghi è rapidamente salito. Prima del 1966 erano 140.000 all’anno; fra il ’66 e il ’68 questo numero è salito a mezzo milione all’anno. Una tendenza contraria invece viene registrata nella popolazione nera, che migra verso le città con una media di 370mila persone all’anno.
E’ in base a questi dati che la Commissione Presidenziale sui Problemi Urbani ha previsto nella relazione dell’anno scorso che nel 1985 il numero dei neri residenti nelle aree centrali delle
città sarà raddoppiato. Con la migrazione dei bianchi verso i sobborghi, nelle casse dei quali vanno a finire le loro tasse, le amministrazioni cittadine diventano sempre più povere e sono costrette a ridurre l’intervento pubblico in quei settori di cui i neri sono i primi beneficiari. Tipico il caso di New York, dove recentemente l’Amministrazione Lindsay ha proposto di ridurre il bilancio di alcuni ospedali pubblici che servivano la popolazione nera. Aumentano così i fallimenti sulla strada dell’integrazione.
Un altro esempio è quello della scuola. Le scuole di quartiere si integrano naturalmente quando i quartieri sono a popolazione mista. Ma la composizione di un quartiere dipende dal livello di guadagno e allora, per integrare le scuole, si è ricorso allo stratagemma di trasportare in scuole bianche bambini neri di altri quartieri, e viceversa. Il programma non ha funzionato e ora i neri, rispondendo anche alle esigenze di una accresciuta militanza ideologica legate a una riscoperta identità culturale in contraddizione con quella bianca, chiedono il controllo delle loro scuole di quartiere con diritto di determinare i programmi, designare gli insegnanti, ecc.
Quello della scuola è oggi uno dei fronti più importanti della lotta, se non altro perché coinvolge larghi settori della popolazione e tende a politicizzare un crescente numero di persone. Questa tendenza al controllo del sistema educativo elementare e medio ha un corrispondente nell’Azione degli studenti universitari neri per ottenere dipartimenti di studi afro-americani.
In sostanza quello che si rifiuta è l’integrazione e ciò che si chiede è una forma di auto-segregazione. L’opinione liberal si scandalizza dinanzi a questo corso politico, ma esso pare ormai irreversibile. Uno psicologo nero di Watts in un saggio intitolato Non più bambini scrive che “la militanza nera nelle comunità di colore è diventata il più promettente meccanismo attraverso il quale raggiungere la maturità, la libertà e la giustizia”. Il volontario rifiuto delle tradizionali relazioni con i bianchi diventa un importante fattore nella risoluzione degli squilibri di potere.
Il progetto di uno Stato separato, completamente nero, è stato del resto una costante nella storia dei movimenti radicali nazionalisti. Anche Eldridge Cleaver, leader delle Pantere Nere ora auto-esiliatosi a Cuba, affronta il problema in un saggio intitolato “La questione della terra e la liberazione nera” (nel suo recente libro Post Prison It ’riting and Speaches). Ovviamente oggi l’appagamento di questa “fame di terra” come recupero o conquista di una parte di territorio degli Stati Uniti è abbastanza impossibile, ma lo stesso Cleaver, intuendo le profonde radici di questa visione utopistica nella popolazione nera, evita una presa di posizione definitiva rinviandola a un plebiscito da tenere nei ghetti.
E’ questo uno dei dieci punti del programma del Black Panther Party. Se è irrealizzabile il progetto di uno Stato nero separato — sarebbe necessario raccogliervi, magari con l’emigrazione forzata, tutte le masse negre che vivono nei vari centri urbani — non è però irrealizzabile il progetto di un controllo di quelle parti del paese (i ghetti), di quelle istituzioni (le scuole, le università, le industrie, le banche, ecc.) che i neri occupano o utilizzano. E’ questa l’idea p. es. che è dietro talune richieste avanzate dalle organizzazioni nere nelle università; o dietro la rivendicazione del controllo economico nei ghetti.
Su questo terreno si realizza anche un minimo di convergenza sostanziale tra neri nazionalisti e rivoluzionari, i quali ultimi si rendono conto dell’importanza di acquisire il controllo sulle istituzioni sociali di base. Il problema ad esempio del finanziamento delle organizzazioni militanti va acquistando una rilevanza crescente e recentemente ha ricevuto una drammatica risposta. Alcune
settimane fa James Forman, ex-segretario di SNCC (Student Nonviolent Coordinating Committee) e ora rappresentante della National Left Economie Development Conference, ha interrotto una cerimonia religiosa alla Riverside Church di Manhattan per presentare un Black Manifesto che ha introdotto il concetto delle “riparazioni”, di cui sentiremo parlare molto d’ora innanzi.
Avendo premesso che come i neri hanno resistito in passato al tentativo bianco di schiavizzazione oggi devono lottare contro chi tenta di trasformarli in capitalisti, Forman ha denunciato il ruolo che il capitalismo e la Chiesa bianca hanno avuto nella oppressione dei neri. Ha chiesto così che le chiese cristiane, le sinagoghe e tutte le altre istituzioni “razziste”, come la General Motors, la Ford, Dupont, le compagnie Rockefeller ecc. paghino come riparazione per i danni subiti dai neri 500 milioni di dollari. Nel caso specifico della Chiesa protestante, Forman ha chiesto che questa metta a disposizione il 60 per cento dei profitti annui sugli investimenti. Nel programma del Black Manifesto questi fondi dovrebbero servire per la costituzione di una banca nera, di una università di case editrici, di un fondo per la difesa, ecc.
Le Pantere Nere nacquero nel ghetto di Oakland (San Francisco) tre anni fa. Huey P. Newton, ora in prigione dove sconta una condanna a quindici anni per l’uccisione di un poliziotto in uno scontro a fuoco, elaborò la piattaforma del partito in dieci paragrafi: libertà, pieno impiego, fine della rapina dell’uomo bianco nelle comunità nere, abitazioni decenti, educazione, esenzione dal servizio militare, fine della brutalità poliziesca nei ghetti, libertà per tutti i prigionieri neri nei vari penitenziari perché condannati in processi in cui non sono stati giudicati da loro pari, plebiscito da tenersi nelle comunità nere sotto la supervisione delle Nazioni Unite per la determinazione del destino nazionale della popolazione di colore.
Le Pantere Nere sono oggi il gruppo più attivo in America. Sono loro che hanno introdotto il concetto dell’autodifesa armata, che hanno organizzato i servizi di pattugliamento nei ghetti californiani per prevenire le operazioni di polizia, sono l’unico gruppo che fa un’analisi della situazione nera non solo in termini di razza, ma anche di classe. La loro ipotesi politica si fonda su un’insurrezione rivoluzionaria della popolazione nera nel quadro di una guerra di liberazione nazionale anticolonialista. La lotta è diretta inevitabilmente contro la “madrepatria” e dovrà portare alla creazione di un nuovo Stato americano: anche i rivoluzionari bianchi potranno dare una mano a questa costruzione, naturalmente.
Le Pantere Nere si considerano l’avanguardia rivoluzionaria e come tale vengono riconosciute da organizzazioni radicali bianche come l’SDS che, avendo spostato il fuoco della campagna politica dal problema del Vietnam a quello del razzismo, tentano ora di stabilire dei rapporti almeno di vertice con i militanti neri. Naturalmente contro questi ultimi la repressione è diventata violenta e indiscriminata; quindici membri del partito sono già stati uccisi in vari scontri a fuoco con la polizia e più di mille sono stati arrestati soltanto negli ultimi mesi. Le Pantere sono organizzate oggi in sezioni che raggiungono il numero di settanta nei vari Stati. Sostanzialmente sono solo i giovani a farne parte e questo è un fatto che conta per gli sviluppi del movimento.
Ma è difficile nelle attuali condizioni credere che l’ipotesi rivoluzionaria sia realizzabile. Harold Cruse, autore di un ottimo libro uscito un anno fa, The Crisis of the Negro Intellectual, in cui faceva l’analisi del ruolo svolto dalla sinistra marxista nella vita culturale e politica dei neri, ha pubblicato recentemente una raccolta di saggi dal titolo Rebellion and Revolution. La sua tesi fondamentale è che la rivoluzione tout court è per ora irrealizzabile, perché dietro ai leader carismatici, liberatori o profeti non esiste ancora un patrimonio culturale autonomo. Egli sostiene, riprendendo in un certo senso Fanon, che la strategia rivoluzionaria dei neri deve fondarsi anche sulle aspirazioni del nazionalismo nero, che da queste deve emergere una teoria sociale radicale, e che prima di una rivoluzione politica deve realizzarsi una “insurrezione culturale”. In un certo senso, questa è già incominciata; ed è la rivoluzione nell’arte. Principalmente nel teatro e nella musica dove ormai si è sviluppata una forma d’espressione che non è più in nessun senso americana. E’ ormai un’arte nera.
* Fondato a Roma nel 1963 da Ernesto Rossi e Ferruccio Parri, L’Astrolabio è stato un periodico politico di orientamento azionista e riformista