Qui potrai trovare una vasta rassegna di materiali aventi ad oggetto uno dei periodi più interessanti della recente storia repubblicana, quello compreso tra la fine degli anni Sessanta e i primi anni Ottanta del secolo scorso.
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di Sebastiano Palamara
Sovranità impersonali su continenti immateriali, sorti sulle spoglie di forme dell’umano ormai in liquidazione. Tecno-burattini immersi nel plasma di architetture sociali obbliganti, nei fondali annebbiati di vite e relazioni in logoramento. Novelli dover–essere assemblati al siero informatico di laboratori digitali, consacrati sull’altare di un contesto preso nella rete dei nuovi domini. Processi di adescamento digitale su identità costruite tra manipolazione e plagio, al canto di muse elettrizzate narranti i poteri taumaturgici dell’Intelligenza artificiale. Sullo sfondo, frotte di migranti del malinteso bramano visibilità in rete, aggirandosi smarriti sulle rovine di secolari aggregazioni, cloni volontari di algoritmi sovrani, già biometricamente assoggettati a profilazioni predittive.
Fuori dai led e dallo sfinimento digitale, non più un futuro di emancipazione né percorsi vitali da edificare collettivamente, ma una realtà di emarginazioni e libertà vacillanti, una slavina «di solitudini connesse, il cui esito antropologico eccede Internet e insidia le radici della nostra stessa storia socialei». No, non è l’iperbolico trailer dell’ennesima stagione di Black Mirror, ma una pennellata introduttiva sull’ultimo lavoro di Renato Curcio: Sovraimplicazioni (Sensibili alle foglie, 2024).
Ma cosa sono esattamente le «sovraimplicazioni»? Queste possono definirsi come le interferenze che vedono un soggetto, non necessariamente umano, intromettersi surrettiziamente nelle attività in cui quasi chiunque è ormai pressoché ininterrottamente coinvolto: ricerche online, comunicazioni su WhatsApp, acquisti, svaghi. Un concetto vasto, quello di sovraimplicazione, che contiene al suo interno linee che si sviluppano su un arco sociale e politico di portata enorme. Intrusioni e manipolazioni, ipoteche esistenziali relegate al non-detto, premessa inconfessata all’egemonia delle linee di potere che indirizzano i processi storico-sociali, sfondo e ambientazione all’esistenza collettiva ii. Nel ricostruire i lineamenti teorici del concetto, Curcio ricorda come la prima e più rilevante formulazione teorica di sovraimplicazione sia rintracciabile nell’opera Lo stato incosciente (1978) del sociologo francese René Lourau.
Nel lavoro di Lourau, la sovraimplicazione si configurava come la funzione di guida ideologica che i meta-contesti obbliganti svolgono nei processi di trasformazione sociale, funzione generalmente poco (o per nulla) approfondita. Lo stato incosciente constatava come, sull’oggettiva relazione di dipendenza di sociologi e ricercatori da finanziamenti e committenze di organismi statali e para-statali, si innestasse poi un meccanismo di inconscia rimozione. Il diffuso «stato di incoscienza» descritto dal sociologo francese si riferiva primariamente «alla capacità dello Stato, delle istituzioni e delle grandi aziende di tessere e far accogliere la narrazione della loro benefica funzione». Secondo Lourau le istituzioni esercitano la propria influenza egemonica mediante un “inconscio profondo” in grado di condizionare riflessioni, percezioni e sentimenti delle collettività e dei singoli che si trovano all’interno del loro raggio di implicazione.
Curcio richiama il doppio movimento descritto dal sociologo francese per illustrarne, nel presente, le amplificate propaggini, specificamente nell’elevato numero di ricercatori e ingegneri impiegati nelle compagnie del capitalismo digitale, e nella silenziosa naturalizzazione della dipendenza di questi da istituzioni statali, militari e/o di intelligence. Il nucleo semantico del concetto di sovraimplicazione è perciò riconducibile all’“interferenza” derivante dalla sovrapposizione dei poteri che si esercitano su un campo e sui soggetti che lì vivono e agisconoiii.
Del resto, riflette Curcio, sarebbe illusorio pensare che i processi di implicazione possano sfuggire alle dinamiche dei campi sociali in cui avvengono, e così all’interazione con istituzioni di qualche tipo. Qualunque riflessione sul terreno delle micro-dimensioni relazionali dovrà dunque tenere in debita considerazione «i riflessi ideologici e i dispositivi organizzativi sopra-implicanti delle istituzioni, i quali, interferendo col campo di ricerca, indirettamente ipotecano, limitano o comunque sottraggono ad esse e alle loro dinamiche un quid di libertà». (Anche) di questo il seguito di quest’analisi si occupa.
Tra le ideologie egemoni in questa epoca, probabilmente la più rilevante — quanto a conseguenze derivanti dall’assunzione delle premesse che la informano — è quella che sostiene la neutralità dello sviluppo tecnico-scientifico. In accordo ad essa, scienza e tecnologia sarebbero immuni alle caratteristiche dei modi di produzione delle società in cui prendono forma, e di esse sarebbe dunque possibile fare «un uso buono o cattivo: niente di più e niente di meno». Le radici di quest’ideologia affondano già nella società industriale, quando erano poste a fondamento dell’immaginario corrispondente. Tuttavia, dice Curcio, a dispetto della sua pervasività e diffusione, questa ideologia è falsa e, ancor peggio, dannosa.
Se da un lato, infatti, ha l’effetto di eccitare le sirene semplificatrici sul possibile “buon uso” di una tecnologia “cattiva”, dall’altro spegne sul nascere la possibilità di «ricerca di una tecnologia umana emancipata dalla brutalità arcaica dello sfruttamento e del dominio capitalistico»iv. Ben più rilevante del coinvolgimento ideologico di lavoratori e ricercatori si rivela essere infatti «la sovraimplicazione suprema, che Marx ha definito “l’unicità dello sviluppo tecnico-scientifico” entro la quale le stesse aziende inconsciamente sguazzano». Di fatto, quando il capitale si appropria degli strumenti della scienza e la incorpora nei suoi processi produttivi, questa diviene funzionale «all’auto-riproduzione del modo di produzione e della formazione sociale capitalistica». Si vincola, cioè, alle finalità aziendali, «all’eccellenza dei processi produttivi e alla massimizzazione del profitto».
La tesi di Curcio sul punto è, in sintesi, la seguente: centri di ricerca, tecnici e ricercatori di ogni livello vendono la propria forza lavoro «nelle aziende che li hanno “assunti”, per non dire ‘sussunti’». Queste aziende di fatto sovraimplicano le attività compiute dai soggetti che si trovano ad agire in esse, indirizzandole sulla base delle proprie esigenze, interessi, finalità più o meno espliciti, su cui si innestano, a loro volta, le implicazioni derivanti dagli assetti politici nazionali e, soprattutto, internazionali. In altre parole, a compiere le scelte fondamentali nei laboratori di ricerca occidentali non sono, secondo Curcio, i singoli ricercatori e scienziati, ma il capitale internazionale.
Le aziende capitalistiche non sono nate per immaginare ricerche scientifiche e tecnologiche finalizzate al benessere collettivo; non agiscono per sviluppare salute, cura dell’ambiente, istruzione diffusa e permanente. Se qualcuno avesse dubbi in merito, chiosa Curcio, potrebbe facilmente confrontare l’importo delle voci di spesa destinate alla produzione di tecnologie socialmente utili con quelle impiegate in ricerca e produzione di tecnologie militari. L’assunzione della falsa ideologia della neutralità dello sviluppo tecnico-scientifico ha come inevitabile conseguenza la preclusione “preventiva” della possibilità di costruire e sviluppare percorsi di innovazione differenti e alternativi, esclusione foriera di effetti dolorosi e di lunga durata sull’esistenza collettiva.
Aziende che venti o venticinque anni fa non esistevano sono oggi la più potente oligarchia planetaria. I vertici della piramide tecno-digitale si chiamano oggi Microsoft, OpenAI, Google, Meta, Amazon, X-AI, Apple. Una manciata di big-tech che esercita poteri non raffrontabili, in pervasività e capacità, alle categorie della sovranità politica novecentesca: nel contesto occidentale sono loro oggi i “padroni del vapore”. La traiettoria dell’intervento dei dispositivi — spiega l’autore di Sovraimplicazioni — non può non seguire le intenzioni dei padroni di piattaforme e motori di ricerca, al fine di «incoraggiare, rafforzare, rilanciare i messaggi più conformi» o, per inverso, «silenziare, opacizzare, oscurare, silenziare, eliminare» chi non si allinea alle intenzioni dei padroni.
E allora, continua Curcio, la cosiddetta “integrazione”, cioè il processo di crescente ibridazione tra essere umano e dispositivo digitale «non è che un’altra faccia della sovraimplicazione specifica imposta dal capitalismo cibernetico». Nel contesto capitalistico, «Internet, le macchine IA, così come i robot utilizzati nei processi automatizzati “integrano” a priori e inesorabilmente i loro utilizzatori in eco-sistemi (…) finalizzati alla produzione diretta o indiretta di valore e plusvalorev». In termini più accessibili e diretti: la macchina digitale «è soltanto un segmento di un più ampio e determinato sistema proprietario finalizzato alla produzione di valore, o di una qualche istituzione orientata all’esercizio di un particolare poterevi».
Curcio non usa parafrasi nell’inquadrare quella che ritiene essere la questione più rilevante: nel sistema capitalistico «i dati-valore prodotti sono strutturalmente condannati a moltiplicare le disuguaglianze sociali e, nello stesso tempo, a implementare una più efficace mappatura sistemica e un più ossessivo controllo cibernetico di chi la sta usandovii». Insomma, dispositivi pubblicizzati da anni come imprescindibili, essenziali, incanalano le pratiche sociali sui binari predeterminati dai padroni delle piattaforme, sfruttando la diffusa illusione percettiva che induce a credere all’integrazione “personale” del dispositivo con l’individuo che lo utilizza. La neutralità di questi dispositivi, che risucchiano progressivamente quid di libertà sempre più ampi, ribadisce Curcio, è il mito da abbattere affinché prospettive affermatrici dell’universalità dei bisogni e della possibilità di espandere le proprie possibilità creatrici non diventino solo un feticcio di un passato che, di fatto, pare già cancellato.
Immani i traguardi raggiunti in meno di due decenni da quella che viene definita nel testo come de-umanizzazione relazionale. Vertiginoso il numero di attività da sempre svolte sul piano relazionale e ora traslocate sul continente digitale: «lavoro, istruzione, comunicazione, svago, ricerca di partner, acquisti commerciali, informazione, disinformazione, scambi di denaro, confronti politici». Le attività in connessione si estendono oggi alla quasi totalità delle pratiche sociali e private, e gli strumenti digitali si sono appropriati stabilmente di più della metà del tempo di veglia degli esseri umaniviii.
L’organizzazione della vita quotidiana pare abbandonare i confronti allo specchio d’ogni era precedente. Dirompenti le implicazioni sociali, antropologiche, politiche, che Sovraimplicazioni rintraccia a partire dalle ricadute sul quotidiano. Nella migrazione di massa delle attività relazionali verso l’ambiente digitale, il testo di Curcio legge il disvelarsi di un cambiamento antropologico radicale. Non solo un (pur epocale) cambio di passo tecnico-logistico, ma una vera e propria trasfigurazione dell’esperienza umana, in cui si assiste, perlopiù attoniti e incapaci di reazione, alla messa in discussione del primato della vita di relazione sulla vita di connessione.
Il vero basso continuo dell’analisi del sociologo ex brigatista consiste nel considerare il prolungamento del tempo delle attività in connessione — e la conseguente incentivazione della disciplina auto-indotta nelle pratiche e nei comportamenti — come gli indicatori più rilevanti nell’affermazione di nuovi paradigmi di potere e sorveglianza. L’incremento e l’estensione dei processi di sovraimplicazione esercitati dai dispositivi pongono alla base della mutazione in atto proprio la trasformazione dell’individuo in oggetto tracciabile.
Come scrive Curcio, «nel tempo-connessione qualsiasi cosa facciamo produce dati per qualche azienda-corporation». Algoritmi premiali sono lì, al varco, che attendono “pazientemente” — si fa per dire, vista la frequenza dell’interazione con i dispositivi — l’utente. Ogni performance è valutata e soppesata. Bersagliati da “feedback” continui da parte delle macchine, gli utenti vengono “premiati” se i loro standard d’accesso si conformano alle attese, e progressivamente incanalati nelle coordinate prestabilite dai gestori delle piattaforme. In altre parole, addestrati all’obbedienza.
Le scelte premiate saranno quelle più vantaggiose per la piattaforma («per le piattaforme commerciali, saranno quelle che “scelgono” i prodotti più redditizi per l’azienda»), mentre quelle meno vantaggiose vengono disincentivate mediante oscuramenti selettivi e riduzione o annullamento tout court della frequenza di apparizione dei contenuti meno “redditizi”. Strategie comportamentiste, circuiti perversi di riesumazioni pavloviane sulla soglia inoltrata del millennio. Secondo Curcio gli strumenti digitali si configurano allora non come semplici estensioni dell’umano, ma come veri e propri agenti di riconfigurazione della soggettività.
Sono costantemente all’opera apparecchi in grado di registrare, classificare luoghi, durata, protagonisti di connessioni e pratiche d’ogni genere. Macchine finalizzate principalmente non ad “assistere” l’essere umano, ma a plasmarlo, sorvegliarlo, disciplinarlo. Nell’analisi di Curcio le ordinarie, quotidiane, attività online costituiscono essenzialmente l’ininterrotto flusso d’alimentazione di un apparato di controllo che, ad ogni utilizzo dell’inconsapevole o arrendevole utente, «potenzia sistemi di tracciabilità e sorveglianza». Così, laddove i filtri di tali sistemi ritengano “improprie” le azioni che si svolgono su quelle connessioni, possono bloccarle o segnalarle a sistemi terzi di controllo. Mai uno strumento del passato, zappa, chiave inglese, macchina da scrivere, è stato in grado di far questo. Rapporto inverso tra umani e strumenti, fotografia d’un ribaltamento senza eguali nella storia dell’uomo sul pianeta. Inedite anche le implicazioni: se ieri erano le macchine ad eseguire «gli indirizzi imposti dagli umani, oggi succede invece che sono per la gran parte gli umani ad eseguire con frequenza crescente gli indirizzi dettati dalle macchine».
Alcuni esiti della riconfigurazione in corso sono già chiaramente intelligibili. Tanto per iniziare, spiega Curcio, il “popolo” non c’è più. Al suo posto, stolido e asettico, si staglia una moltitudine di utenti cibernetici. Specie ibrida tra umano e digitale, pupille grigio-laptop e sinapsi atrofizzate sul palcoscenico d’un consumo ossessivo e indotto. Nelle sezioni che seguono, si restituiscono le linee portanti dell’analisi di Curcio circa le dinamiche di ibridazione cibernetica degli esseri umani — a partire dalla costrizione a svolgere attività obbliganti in connessione — e la convergenza di istituzioni e strumenti che le definiscono. Senza dimenticare le architetture ideologiche, perlopiù occultate — lo si è già ricordato — che ne animano condotte e finalità.
Curcio si sofferma sulla distinzione tra alcuni aspetti della «colonizzazione tecnologica in atto», investigando le implicazioni semantiche relative ai concetti di “iper-connessione” e “dipendenza”. Se il termine “iper-connessione” allude a un «eccesso di tempo, la cui misura resta tuttavia vaga e indefinita», “dipendenza” ha invece implicazioni semantiche che la collegano direttamente al campo della patologia. Nell’analisi di Curcio la riflessione sul tempo trascorso su Internet è allora ricondotta alla sua radice sociale. Se i meccanismi di dipendenza da dispositivi e piattaforme digitali possono genericamente considerarsi, nelle differenti articolazioni che assumono, come momenti della colonizzazione tecnologica degli individui, è però utile rintracciare, nel termine “dipendenza”, un significato duplice.
Osservata dalla prospettiva dell’utente, essa può essere intesa anzitutto come:
— dipendenza dall’erogazione di determinati servizi, una condizione che non si misura sul tempo trascorso in attività di connessione, per abnorme che esso sia. Una condizione strutturalmente caratterizzata, invece, dalla natura dell’erogazione, la quale può essere unilateralmente sospesa qualora gestori di reti e piattaforme decidano in tal senso. A titolo esemplificativo, Curcio cita la chiusura della miriade di profili Facebook di chi ha sostenuto la resistenza di organizzazioni e popoli classificati dall’azienda come “terroristi”. Questa dipendenza dalle sovraimplicazioni esercitate da gestori di reti e piattaforme è considerabile “totale”, in quanto l’utente non ha alcun margine di libertà o azione rispetto a decisioni di cui è solo il terminale passivo, il ricevente ultimo di decisioni prese altrove di cui non può che prendere atto.
Non meno rilevante, però, è il tipo di dipendenza osservabile dal rovesciamento della prospettiva appena descritta. Curcio si riferisce:
— alle implicazioni della condizione di dipendenza interiorizzata e incorporata della moltitudine di individui che, avendo fatte proprie «le induzioni di questa o quella piattaforma, ha contratto abitudini dannose, se non addirittura un malessere psico-fisico». Individui pressoché incapaci, nella propria solitudine atomizzata, di opporre alcun tipo di resistenza effettiva. Sono in costante aumento gli studi che mostrano l’incremento delle patologie mentali correlate alla crescita dell’utilizzo di social network e/o dispositivi digitali, specie tra gli adolescenti. Sempre più diffusi anche i casi di ricovero di soggetti in preda a vere e proprie crisi di astinenza, derivanti da quelle circostanze eccezionali in cui l’utilizzo smodato, o pressoché ininterrotto, venga sospeso o negato (per esempio, a seguito di limitazioni imposte dai genitori). Ma Curcio evidenzia anche come, a fronte di un contesto tecno-digitale costantemente impegnato a tenere l’utente inchiodato su Internet, sia parallelamente all’opera «un’ampia e influente letteratura psichiatrica e psicologica di “derivazione positivista”» che tende piuttosto a minimizzare, quando non ad occultare, i meccanismi di dipendenza, compiacendosi di interpretarli come «sintomi di una iper-connessione individuale, vale a dire di un comportamento “sbagliato” dell’utente».
Quasi un pestaggio virtuale da parte dei meta-contesti, dunque, i quali prima “colpiscono” l’utente somministrandogli quotidianamente pratiche di sovraimplicazione che ne colonizzano abitudini e immaginario; e poi, subito dopo, si prodigano nel colpevolizzarlo per essere stato “picchiato”.
Il «decreto di esistenza» sull’infrastruttura-Internet, riflette Curcio, istituisce al contempo pure un confinamento. Se un qualche contenuto di verità può rintracciarsi nello slogan «chi non è su Internet non esiste», esso è rinvenibile pure nel suo rovesciamento controintuitivo: esisti su Internet, non esisti altrove. Si sparisce, scrive Curcio; d’accordo, ma da dove? Anzitutto dai territori. Nella rete connettiva «il concetto di territorio cambia significato». I territori divengono dei «non luoghi virtuali (…) frequentati solo da persone “assenti” che, operando in connessione, mettono temporaneamente fuori gioco il loro corpo». Il rovescio della medaglia connettiva è la svalutazione della materialità dell’esistenza e dei rapporti in presenza, a favore di identità di community cibernetiche.
Slittamenti della presenza nel paradosso dell’assenza. Nell’osservare il viraggio dalle pratiche sociali al virtuale, Curcio coglie nel fenomeno vettori emozionali differenti. Il primo «ci investe come un turbine, portando con sé grandi illusioni di inclusione». Nella sostituzione delle vecchie pratiche sociali plasmate nella società industriale con le nuove attività digitali, l’allucinazione propagandistica millanta «un nuovo stadio della convivenza: più efficiente, più veloce, più denso di connessioni». Dietro il velo delle pubblicità, Curcio ravvisa le linee di un progetto di conquista egemonica degli umani e delle loro pratiche. L’altro vettore svela infatti un vissuto depressivo sempre più diffuso, legato alla perdita delle relazioni esperite. I dispositivi «ibridanti» — tali, lo si è detto, in virtù della sempre maggior commistione con gli esseri umani — sono in grado, proprio perché sempre più personalizzati, di incrementare l’abilità nel «coinvolgere, integrare e contaminare nelle attività da essi suggerite ai loro utentiix». Strumenti di una macchina sistemica
«che al suo interno annichilisce la capacità creativa e collettiva di produrre dei nuovi immaginari istituenti e la sostituisce con una bulimia di ‘irrealtà immaginarie’ alimentata dalle Chat-IA che si offrono di moltiplicare all’infinito la loro produzione su comando».
La solitudine dell’utente di fronte allo schermo luminoso è mascherata dall’illusione d’avere di fronte una platea potenzialmente infinita di interlocutori e di poter così godere di un’amplificazione delle proprie possibilità comunicative e, lato sensu, esistenziali. Dietro il velo della decennale e martellante propaganda digitale, un paniere di generazioni colme di «solitudini compulsive, isolamenti estremi da ogni forma di vita sociale, depressioni, patologie gravissime, la cui evoluzione conduce alcuni perfino al suicidiox». I padroni delle piattaforme lo sanno. Per questo tengono accuratamente sullo sfondo questi (e altri) danni collaterali della mutazione in atto.
L’assuefazione al diradarsi di relazioni ed esperienze è crescente. Il tempo della relazione con gli altri esseri umani si riduce, il vivere insieme sbiadisce, l’effettività dell’esperienza impoverisce. Interlocutori ondeggiano sulla soglia tra presenza e assenza. Sono lì, ma vengono meno al trillo della notifica. Continuo. L’inutilità assurta a fischio di comando. Piccoli, continui traumi sulla superficie dei momenti relazionali. Dissociazioni, migrazioni in un «non-luogo di connessione». Scrollate compulsive su un tessuto sociale in lacerazione. Estranianti. Per chi le subisce, solo «un vissuto di disconferma indotto dalla improvvisa sottrazionexi».
Internet richiama allora «alla memoria le sirene di Omero e quel loro canto, seducentexii». Per Ulisse e compagni, un dolce abbandono, ma letale. Vacui vagheggiamenti di possibilità d’espressione e relazione sempre più ampie. Navigazioni «in connessione» come flussi elettronici di onde, in assenza. A crescere davvero, miliardi di solitudini. Il territorio nuovo della comunicazione tra umani nella loro «solitudine in connessione» vede le macchine svolgere «attivamente e in permanenza una gran quantità di funzioni non solo connettive», e le persone-cibernetiche, a prescindere da quale «identità utilizzino per esercitare la loro utenza, non possono più operare nella pienezza della loro vastità identitaria, come invece avviene nei processi di comunicazione in relazione».
A sbiadire fino all’assenza, «quell’intima e fondamentale ‘identità di presenza a sé stessi’ che costituisce il perno della loro libertà in quanto persona nei contesti relazionali». Si spalancano le porte di un abisso che inaugura «una condizione antropologica qualitativamente “altra” da quella che ha caratterizzato fino alle soglie di questa nuova era l’esperienza dei nostri scambi comunicativi in presenza». Labirinti connettivi che istituiscono l’artificializzazione parassitaria della vita e dei viventi, il labirinto connettivo come parassita «che chiama gli umani a sé per nutrirsi del loro tempo e delle loro pratiche, condizione (…) alla sua riproduzione allargataxiii».
Le dissociazioni cibernetiche, ribadisce Curcio, «possono essere considerate uno dei più rilevanti marcatori della mutazione socio-antropologica in divenire». Le implicazioni future di questo marcatore non sono, al momento, del tutto decifrabili, ma a prescindere dalla specifica configurazione che assumeranno andranno a segnare nuovi traguardi nel processo di de-umanizzazione relazionale. La domanda che il testo pone al lettore, sullo sfondo della smaterializzazione e deterritorializzazione dei legami, è questa: in questi insiemi (s)connessi di identità cibernetiche dissociate («dai loro stessi attori postate volontariamente in connessione») dove rinvenire ancora il «sociale», inteso come legame antropologico?
Nuovi immaginari accompagnano l’irruzione potente delle nuove cyber-tecnologie. L’Intelligenza artificiale è descritta come «orizzonte luminoso verso cui orientare lo sguardo, nuova “promessa di futuro”». Il perno è attraente al massimo grado: l’iper-facilitazione. «Lo scibile umano a portata di ‘clic’». L’IA risolverà tutti i tuoi problemi. Senza fatica. Non sai qualcosa? Clic. Non ricordi qualcos’altro? Clic. Vuoi accrescere le tue possibilità di successo? Clic. Ti serve più velocità, più efficacia? Vieni. Il succo della favola, l’inganno. Il non-detto profondo di queste promesse è che esse «s’accompagnano a macchine che già cercano di prefigurare concretamente il futuro promesso». Macchine da cui gli esseri umani e le loro pratiche reali dipendono sempre più. Da un punto di vista sociale, per l’imposizione dei contesti che determinano. Poi, per l’obbligo di connessione che richiedono al singolo. Sempre più alto il prezzo da pagare per chi disattende i comandi dei padroni del tempo. Per chi non si allinea s’affacciano, ingombranti, le ombre dell’emarginazione e dell’esclusione da contesti anche decisivi per la sopravvivenza individuale.
Definitivamente in soffitta, tra le altre cose, il (fu) punto fermo della relazione di specie con le macchine: il principio secondo cui gli strumenti — a prescindere dalla forma e dal grado di «intelligenza» che possiedono —debbano «rendere più libere, coinvolgenti, collaborative e pacifiche le multiformi aggregazioni comunitarie e le loro relazioni con gli ambienti del pianeta in cui si trovano». L’ideologia transumanista «degli ingegneri della Silicon Valley, uscita dalle sue nicchie tecnocratiche» assedia la struttura profonda dell’immaginario personale e collettivo.
I rovesciamenti antropologici e sociali in corso — questa la tesi fondamentale, ricorrente in Sovraimplicazioni — sono «destinati a travolgere e rideterminare gli assetti secolari della vita quotidiana e dell’organizzazione sociale che nella società industriale avevano regolato tutte le sue dinamichexiv». A causa di questo cambio di passo anche i flussi di energia mutano, e l’energia vitale, empatica e calda, fonte primordiale dei legami e della vita, viene sostituita dall’energia fredda e sterile degli scambi in connessione.
Gorgia, sofista del V secolo a.C., definiva la parola come un elemento minuscolo, impalpabile, eppure magico. Un elemento sottilissimo, in grado di emanare un potere immenso, capace di produrre sentimenti, emozioni, di infondere coraggio o timore. Oggi, dispositivi di Intelligenza artificiale noti come LLM (Large Language Model)xv affinano algoritmi in grado di prevedere l’effetto che la scelta di determinate parole suscita sul lettore. Questi sofisticati linguaggi computazionali sono in grado di intercettare la persona-cibernetica bersaglio, di studiare i suoi tic e il suo habitat semiotico, «il suo patrimonio di parole, la loro ricorrenza, il significato che essa vi attribuisce (…), la sua peculiarità sintattica ed espressiva»xvi, al fine di scegliere selettivamente i modelli più adeguati ad influenzarlo.
La linguistica computazionale suggerisce inclinazioni e sfumature di significato idonee a ottenere «risonanze empatiche e azioni correlate». Pratiche di sofisticazione che «difficilmente balzano agli occhi in modo evidente, anche se questo è uno dei terreni più battuti da chi si propone manipolazione e orientamento del consenso»xvii. Le capacità algoritmiche accrescono strada facendo la propria performatività, realizzando in modo progressivamente sempre più compiuto l’induzione all’allineamento degli utenti utilizzatori, le cui percezioni vengono «sollecitate, titillate, educate».
Distillazione di parole e immagini, “suggerimenti” per indurre punti di vista, sentimenti, azioni. Determinazioni all’allineamento, trasfigurazioni gorgiane sulla soglia inoltrata del millennio. Intuibili le enormi implicazioni politiche di questa linea d’intervento cibernetico nei processi di comunicazione.
Un insieme di persone in connessione istituisce quello che viene definito come network, una rete. Per Curcio, non molto più di «un aggregato virtuale altamente sovraimplicato dall’infrastruttura di Internet e dalle applicazioni occorrenti per “navigare”». All’orizzonte (o già sullo sfondo?) c’è la sterilizzazione virtuale dei vecchi vincoli di solidarietà. Intendiamoci, dice Curcio, «formalmente essi rimangono tali, ma virtualizzandosi si allentano e affievoliscono la loro carica empatica». Forme di aggregazione collettiva, associazioni, circoli, partiti, vedono decadere il proprio statuto: da legami sociali divengono «reti», «nodi». Tendono a farsi simili agli individui di una folla con «uno scopo comune [che tuttavia] non obbliga ad esso i suoi partecipanti».
Rievocando le analisi del sociologo David Riesman, teorico delle «folle solitarie», Curcio ripercorre le tappe fondamentali della scomposizione sociale che negli anni Cinquanta, all’affermarsi delle ideologie consumistiche, era andata modificando «modelli culturali, abitudini sociali e comportamenti di un gran numero di persone, specialmente nei contesti metropolitani». Particolarmente interessanti, nell’analisi di Curcio, sono alcune assi che Riesman sviluppa nel proprio percorso argomentativo. Una è quella che si sofferma sulla trasformazione delle condotte dei singoli cittadini, i quali «sempre più si svincolavano dai contesti relazionali prossimali — abitudinari, lenti, tendenzialmente stabili — per farsi preda di potenti suggestioni mass-mediatizzate». In breve tempo influenze pubblicitarie sempre più insinuanti affermavano la propria egemonia. Gli individui, arrendendosi ai modelli «suggeriti da un insieme di narrazioni pubblicitarie martellanti che glorificavano e idealizzavano il possesso della merce», si fecero «strumento docile e passivo dei produttori industriali di merci e apparenze». Divennero, per utilizzare la formulazione di Riesman, degli «other-directed man».
Umani manovrati da altri umani. Da consumatori a «consumati». Le apparenze pubblicitarie, imbellettando le merci con «miraggi» trasfiguranti il valore d’uso dell’oggetto, lo dotavano di un potenziale di desiderabilità dissociato da qualsiasi effettiva consistenza. Nessun aggancio a qualità specifiche degli oggetti. Solo miserevoli «intossicazioni dell’immaginario dei potenziali consumatori». Il lavoro di Riesman svelava l’esito di questa trasformazione antropologica: la folla diventava acritica e solitaria, insensibile ai legami comunitari. Contrassegnata dalla soggezione passiva alle apparenze somministrategli. Una folla «suggestionata dalle esche pubblicitarie della produzione capitalistica e resa conforme ai modelli di consumo da cui è stata insistentemente e verticalmente bombardata». Una folla che smarriva i legami del passato, ritrovando intorno a sé solo un deserto traboccante di merci.
Processi quasi coordinati in linea temporale, almeno nell’Occidente filo-atlantico. Gli anni Cinquanta statunitensi slittano di vent’anni nella riproduzione italiana del fenomeno, divengono i Settanta. Nel frattempo i miraggi si erano espansi dal prodotto al marchio produttore. La scomposizione sociale si faceva metastasi. Ipermercati dell’alienazione crescevano sempre più, assediati da orde di spettri armati di carrello, a caccia di sconti e veleni a buon mercato.
Altro snodo significativo della mutazione antropo-cibernetica descritta in Sovraimplicazioni è la migrazione del mercato dai tradizionali negozi, centri commerciali e ipermercati, al continente virtuale. È noto come in meno di vent’anni Amazon sia diventato il più grande mercato del mondo occidentale. Un mercato online, ricorda Curcio, «dove le persone fisiche non hanno la possibilità di incontrarsi ma possono realizzare i loro acquisti solitari da qualunque luogo e a qualunque ora del giorno e della notte, senza più distinzione tra giorni feriali e festivi, nel tempo continuo di internet». Purché muniti di carta di credito e, va da sé, di smartphone.
La fenomenologia del rapporto tra utente cibernetico e chi lo etero-dirige ha mutato configurazione, rispetto al singolo individuo della «folla solitaria» descritta da Riesman. La persona-cibernetica ha smesso di rapportarsi ad altri umani, e ora rivolge i suoi comandi a robot umanizzati. Alexa, «oracolo-IA di Amazon, nel solo 2022 ha realizzato otto miliardi di interazioni con gli esseri umani». La paradossalità di questa interazione risiede nel fatto che «mentre ogni consumatore si è rivolto a una Alexa fantomatica, Alexa-AI ha istituito per ognuno di loro un registro e si è predisposta a gestire le induzioni delle sue più probabili scelte future».
Lo stordimento della pubblicità tradizionale — esplicita o subliminale che sia — non può ancora dirsi archiviato. Piuttosto, viene ora delegato ai media old school, vecchi elefanti che sopravvivono alla propria demolizione mediante l’elargizione (pure, ancora piuttosto consistente) di elemosine pubblicitarie o finanziamenti pubblici. Ma Alexa ha assunto un altro passo. Per indicizzare le inclinazioni peculiari e le sensibilità dell’utente di cui “si prende cura”, si serve di quelle che abbiamo definito “trasfigurazioni gorgiane”: «uno sciame d’algoritmi predittivi» in grado di produrre specifiche «induzioni semiotiche tarate sulla maggiore possibilità di catturare i suoi desideri».
Chi osservasse controluce lo scenario vedrebbe con evidenza che, a differenza degli «other-directed man» della società industriale, gli esseri umani manipolati della società digitale sono in un rapporto di solitaria connessione ultra-personalizzata con remote intelligenze artificiali calibrate su ciascuno di essi. I singoli user di questi «gruppi di utenti» non hanno alcuna relazione reciproca: il loro intrattenimento e la loro «lavorazione» avviene su base individuale, personale, atomizzata.
Ampliando la prospettiva su un piano d’osservazione verticale, in che consiste la “sovraimplicazione nel contesto geopolitico?”. Essenzialmente, nell’ingiunzione d’allineamento «alle istituzioni, e dei cittadini dei vari sottoinsiemi del sistema alle linee guida dei capofila». Ciò che è evidente togliendo il velo alla narrazione pubblica degli eventi, ragiona Curcio, è che «lo scopo realmente perseguito si nasconde». Ciò che davvero avviene in aree del pianeta devastate da massacri e devastazioni d’ogni genere è presentato sovente secondo una «stereotipata narrazione unica secondo cui il sostegno alla partecipazione più o meno indiretta agli avvenimenti dell’alleanza occidentale viene giustificata con la motivazione di dovere sostenere chi si “difende” da un’aggressione terroristica subita».
Una narrazione artefatta, in cui il terrorismo di Stato, in un malriuscito — eppure fin troppo efficace — gioco di prestigio, è nobilitato, trasformato in legittima autodifesa o in operazione di sicurezza, mentre pratiche analoghe, se compiute da gruppi non allineati agli interessi dell’alleanza occidentale, vengono immediatamente bollate come atti di terrorismo, condannate senza appello e utilizzate per rafforzare quella narrazione binaria che distingue, in modo arbitrario e strumentale, tra violenza «legittima» e violenza «immorale e inaccettabile». Il tutto accompagnato da un sistematico occultamento delle prospettive reali dei popoli coinvolti, delle cause storiche e strutturali dei conflitti, e delle responsabilità condivise, in una cornice comunicativa costruita ad arte per perpetuare l’egemonia culturale, il controllo dell’informazione e il dominio politico-economico da parte delle oligarchie transnazionali che governano, attraverso armi, istituzioni e media, l’ordine globale secondo i propri interessi.
Curcio ricorda che «il processo di colonizzazione economica, culturale, politica e militare dell’Italia che con gli accordi di Yalta prese avvio (…) non ha fatto parte né dell’ABC di formazione scolastica né [di quella] politicaxviii». Tuttavia, le alleanze internazionali in cui siamo inseriti da decenni costituiscono le vere sovraimplicazioni che orientano e condizionano quanto avviene all’interno di un intero contesto geopolitico. Rappresentano, di fatto, le autentiche ipoteche sul futuro degli scenari regionali e nazionali. L’adesione alla Nato ha portato alla penisola una dote «ferrosa» di basi militari e ordigni nucleari sparsi lungo tutta l’estensione del suo territorio, e da decenni i capofila d’oltreoceano sovraimplicano i processi che avvengono all’interno delle aree in cui esercitano la propria egemonia.
A chi, con i suoi diktat, muove i fili delle sovraimplicazioni geopolitiche, interessano ben poco i giganteschi costi umani, industriali, politici che conseguono da quelle scelte. Narrazioni artefatte per occultare il sacrificio di intere aree, «sovraimplicate» alle ambizioni planetarie dei vertici delle strutture geopolitiche. Come le regioni di confine tra Ucraina e Federazione Russa, la martoriata terra di Palestina, per citare solo quelle più note alle attuali cronache nostrane.
Non è una novità, spiega Curcio, che in ambienti capitalistici potere e alienazione si presentino a braccetto. Sotto le vesti ideologico-mistificatrici dell’efficienza, della funzionalità, della velocità, la struttura dei poteri plasma e permea le architetture ideologiche e dà forma agli apparati istituzionali. Il primato della trasparenza come «regina» delle mitologie contemporanee, dice Curcio (richiamandosi alla formulazione del filosofo coreano-tedesco Byung-Chul Han), si dà «effondendosi e affermandosi per le mille vie dell’intermediazione connettiva», sprigionando il suo effetto su un’immensa platea di sudditi passivi di un potere alieno, «sudditi tipizzati, che pur subendone le conseguenze, lo incrementano (…) senza riuscire a percepire l’abisso sull’orlo del quale camminano né a interpretare il malessere e la vertigine che questa condizione provoca loroxix».
I processi svolti dalle applicazioni di Intelligenza artificiale — disciplinamento delle forme di pensiero e dell’immaginario, affinamento dei modelli linguistici di riferimento e dei comportamenti indotti — corrono a velocità incomparabile rispetto agli utenti. Dispositivi dotati di simili tecnologie vengono spesso utilizzati senza averne contezza. Gli esempi sono innumerevoli. Assistenti vocali, motori di ricerca (Google con Bard, Microsoft con Copilot), traduttori intelligenti, applicazioni generative di testi (ChatGPT, Open AI), trasformatori di descrizioni testuali in immagini (Midjourney, Deep AI, Dall-E2 di Open-AI), filtri di visibilità di social network.
L’implementazione dell’Intelligenza artificiale non ha nulla a che vedere, come narrazione pubblicitaria vorrebbe, «con la facilitazione delle pratiche sociali». Quello è solo il «mantello mitico» che le riveste. Secondo Curcio, Internet non serve principalmente, o essenzialmente, per offrire servizi quali trovare un’informazione sui motori di ricerca, fare un acquisto, inviare un messaggio, un documento, tradurre un testo, chattare con ChatGPT, trasferire denaro, effettuare una ricerca a fini di studio. Quella è solo l’ombra proiettata sui circuiti opachi dell’assenza. Internet è lì per catalogare, registrare, indicizzare, «smistare nei server remoti e nei cloud i dati, il suo immane tesoro, per imporre il suo pedaggio, la sua tassaxx».
Accumulazione abnorme di dati e tracce, funzionale al rafforzamento del sistema e delle sue capacità di sorveglianza e controllo. Ma le funzioni dell’Intelligenza artificiale ormai oltrepassano, e di molto, l’accumulazione e la reperibilità di dati e meta-dati. A che pro raccogliere miliardi di informazioni, del resto, se non per estrarre da esse «quelle davvero rilevanti per la valutazione e l’analisi, anche predittiva, di un singolo processoxxi», si chiede Curcio. L’intenzione e l’ambizione ultima del dominio cibernetico converge nella conquista del comando «sulle pratiche e sulle percezioni delle persone che operano nell’infrastruttura connettiva». L’ordinamento di miliardi di informazioni, i cosiddetti Big Data, e il loro convoglio in architetture digitali, è funzionale alla costruzione e alla determinazione di nuove pratiche.
Curcio ritiene infatti che l’Intelligenza artificiale eserciti «su ciascuna persona connessa (…) una mirata e diretta finalità di potere». Potere disciplinare, potere di indirizzare pratiche. L’attrattiva degli smart-device, corredati da design e applicazioni sempre più attraenti, promossi da campagne pubblicitarie insistenti, avvolge untuosamente quasi ogni abitante del contesto geopolitico occidentale. I compiti di sorveglianza, «registrazione, verifica dell’obbedienza e segnalazioni eventuali di traiettorie di comportamento non passivamente allineate ad Autorità sono trasferiti alle macchine IA». Con il diffondersi di questi automatismi di controllo, l’altra trasformazione qualitativa in corso riguarda l’obbedienza: miliardi di interroganti contribuiscono ad addestrare, allenare e «tenere in gratuitamente in forma la macchina».
Ma non basta: l’implicazione più insidiosa è che anche le attività «in connessione», come ogni altra attività, generano adattamenti e incorporano abitudini. Non fanno eccezione — tutt’altro — nemmeno le attività che hanno incorporati i modelli linguistici che attrezzano le Intelligenze artificiali. È su questo terreno, e nella sua distopica cristallizzazione, che le ipotesi del bio-potere potrebbero trovare conferma: la trasformazione fisica e neurale di chi svolge ripetutamente e sistematicamente queste pratiche potrebbe essere l’agghiacciante esito estremo delle pratiche di connessione sovraimplicate dai nuovi poteri cibernetici. In altre parole, «non si può escludere che, in virtù di queste reiterazioni, sul piano corporeo delle persone cibernetiche finiscano per “specializzarsi reti neurali risonanti, reti artificiali il cui riflesso in qualche modo si interiorizza e in qualche modo reduplichino le loro funzioni anche nei corpixxii». Si verificherebbe così il «compiuto rovesciamento del rapporto tra umani e macchine», la realizzazione ultimata e «difficilmente reversibile di una mutazione antropo-cibernetica». Curcio paventa questa ipotesi nella consapevolezza che essa allo stato non è dimostrabile, sebbene anche in questa direzione i segnali inquietanti non manchino.
Raggruppamenti di interessi incapaci di immaginare prospettive votate a cooperazione pacifica, e non a competizione distruttiva, presentano i nuovi dispositivi come necessità imprescindibili della nuova umanità. Sebbene costituiscano oggi i più potenti «strumenti di dominio in mano alle maggiori oligarchie digitali capitalistiche», le tecnologie di IA sono ammantate di mitologie rassicuranti, involucri propagandistici confezionati dalle stesse élite che ne sono a capo. La realtà vede l’attuazione a tappeto di profilazioni sempre più complete, totalizzanti, da parte di macchine cibernetiche capaci di auto-apprendere ed auto-riprodursi. Dal leggendario Deep Blue targato Ibm (che per anni tenne testa al campione di scacchi russo Garry Kasparov fino a batterlo nel ‘96) all’analisi di ribellioni e rivolte, fino a «giochi di guerra» che ottimizzano interventi repressivi sul campo reale dei conflitti e delle dinamiche sociali.
La disamina di Curcio osserva controluce l’avanzamento dei poteri disciplinari di sistemi già autonomi, che ora dopo ora guadagnano ulteriori «margini crescenti d’autonomia decisionale». Sistemi che diventano sempre più capaci di procurarsi quantità enormi di informazioni sui propri bersagli, «di aggiornarsi e, all’occorrenza, di procedere (…) alla loro eliminazionexxiii». Il quadro che emerge sfogliando le pagine di Sovraimplicazioni è deterministicamente cupo, anche se la storia mostra come talvolta anche «i più sofisticati sistemi di monitoraggio territoriale intelligente possono essere bypassati da iniziative» che nella realtà storica non cancellano l’apparizione dell’imprevedibile nel campo del possibile. Non casuali i riferimenti all’israeliano Iron Dome.
Curcio procede descrivendo i procedimenti che danno forma alla strategia di conquista dell’immaginario delle persone cibernetiche. La leva utilizzata è la frustrazione diffusa nelle generazioni più giovani. L’attesa di un futuro sempre più fosco viene sedata col metadone dell’illusione: ipertrofici poteri individuali saranno emanati, come per magia, dallo scettro wireless delle tecnologie. In questo scenario, l’intelligenza artificiale, totem 3.0 dei paradigmi del millennio, si configura «come un’evoluzione della colonizzazione industriale che ha caratterizzato la seconda metà del Novecento, quando l’azienda simbolo era la General Motor». Frotte di servi robotici s’affacciano oggi sulla scena, addestrati a soddisfare gli stessi bisogni appena indotti col contagocce della manipolazione. Questi opachi servitori digitali s’offrono a due padroni: uno, quello vero, le Big Tech che li hanno programmati. Gli altri, fantasmagorici, gli utenti finali. La moltitudine. Gli stessi utenti che «ad ogni nuova interazione contribuiscono ad accrescere la potenza [degli assistenti digitali] e il proprio tasso di subalternitàxxiv».
La maggior parte degli abitanti del pianeta, riflette Curcio, si sta consegnando volontariamente agli «assistenti personali intelligenti», i quali si propongono «di prendere in carico le pratiche quotidiane e organizzarle in modo organico entro le piste economiche, politiche, culturali e ritualmente disciplinatexxv» predisposte da un gruppo ristretto di big tech. Per meglio spiegare l’intrusività di questi dispositivi, Curcio sviluppa la seguente analogia: l’invadenza di questi dispositivi è un moltiplicatore dei braccialetti e delle cavigliere elettroniche imposte ai detenuti in libertà vigilata. Com’è noto i braccialetti elettronici sono strumenti in grado di localizzare gli spostamenti di chi li indossa anche per via satellitare e, nelle versioni più feroci, «come nel caso della Stun Belt (…) adottata da venti Stati americani, con comando a distanza si può infliggere una potente scarica elettrica che induce dolori lancinanti riducendo all’impotenza chi la indossa». Quella che a molti potrebbe sembrare un’associazione eccessiva, di fatto «non lo è, se si tiene conto che le spirali cibernetiche istituite dall’ibridazione con i più consueti device digitali sono molto, molto più potenti». Esse, infatti, non solo perimetrano gli spostamenti spaziali dei soggetti implicati, ma estendono la loro capacità di sorveglianza a scambi relazionali, economici e d’ogni altro genere.
Ma il vero mutamento descritto da Curcio riguarda la finalità del dispositivo. Se nel caso dei dispositivi applicati su detenuti semi-liberi l’obiettivo è imporre una frontiera, uno stop, procurando dolore a chi osa varcarla, ora si promette «un beneficio, un vantaggio, la soddisfazione di un piccolo desiderio». Alle scosse elettriche di Stun Belt, Amazon contrappone la velocità di consegna delle sue merci, «Google le sue risposte fulminee, Microsoft si avventura sulla via della Chat-IA chiacchierata». In entrambi i poli dell’analogia curciana, la connessione si svolge tra una persona cibernetica e una centrale semi-automatica. Che poi la persona implicata «abbia un anello alla caviglia o uno smartphone in mano, per le macchine che eseguono le operazioni e “soddisfano” le preferenze è perfettamente indifferente».
Purtroppo, conclude Curcio, la maggior parte delle persone cibernetiche con lo smartphone in mano «questa condizione singolarizzata, pilotata, non riesce a percepirla». Oppure, se la percepisce, non riesce ad intravederne con chiarezza implicazioni e rischi. In luogo dei colpi di elettricità o di manganello propri dei “vecchi” dispositivi di sorveglianza e repressione, si presentano catene edonistiche mascherate da invitanti e melliflue carezze. Resta poco tempo, scrive Curcio, prima che «il progetto di colonizzazione dell’immaginario a mezzo IA» realizzi il suo scopo. S’assottiglia il tempo residuo a «produrre uomini macchina all’interno di una società macchina, (…) una nuova schiavitù tecnologicamente equipaggiataxxvi».
Interessante un passaggio che Sovraimplicazioni dedica al disvelamento di alcuni espedienti cui la propaganda politica e l’informazione di guerra non di rado fanno ricorso. Nello specifico, ad alcune metodologie usate nella sovraimplicazione «del contesto narrativo istituito esercitata dall’ortodossia dominante». Gli interessi e i giudizi/pregiudizi di specifiche autorità politiche e militari guidano, nel racconto istituzionalizzato, «sovrapposizioni di significati su uno stesso significante, o associazioni insinuanti con un altro significante privo di reali connessioni», rimandando così a differenti «”catene di significati” che concorrono tra loro per condurre l’ascoltatore, il lettore o lo spettatore in un quadro di riferimenti storico-sociali inatteso».
Per avere un’idea efficace del concetto enunciato, Curcio invita a porre l’attenzione sull’uso che viene fatto di parole «che attirano su di sé una forte carica emotiva. ‘Gaza’, per esempio». Una parola che presa per sé rimanda, chiaramente, ad un luogo. E tuttavia quel luogo, nella congiuntura storica e politica attuale è bersaglio «oltre che dei missili di Israele (…), anche di correnti d’odio anti-palestinese anti-islamico convogliate dai decisori dell’alleanza occidentale e ostentatamente assunte dal vertice delle istituzioni europee come dai maggiori social-media». Ecco che, allora, al significato originario della parola «se ne associa un altro — “terrorismo”, in questo caso — sicché il significato geografico della parola scivola via per lasciare il posto a quello sovrapposto con l’associazionexxvii».
Ma il punto più rilevante della questione, specifica Curcio, non risiede principalmente nella manipolazione delle informazioni finalizzata, nel breve periodo, a ingannare le percezioni dei destinatari della comunicazione. Titoli cubitali «e scioccanti, collocazione preminente nello spazio visivo o, all’opposto, invisibilizzazione, iterazione compulsiva delle parole chiave (…)», perseguono un’ambizione ben più ampia, la cui «intenzione non ha a che vedere con l’informazione in sé». L’obiettivo perseguito è il grado zero della resistenza ai processi in corso, la liquefazione delle narrazioni disallineate, messe — tutt’al più — nella condizione di non disturbare. La passivizzazione istituita. È questo il fondamento del controllo sociale nel contesto geopolitico. Il grado zero, «seppur ciarliero, della resistenza ai processi in corso». Immagini e news costruite da dispositivi di IA, deepfake, informazioni false. Narrazioni convergenti «fruibili ovunque nell’impero virtuale, in ogni piazza come in ogni vicolo del labirinto di Internetxxviii». Nello stagno virtuale, tecniche già note di disinformazione generano effetti imprevisti. A rischio, non tanto la «credibilità in organi di informazione istituzionali» già «derubricati a organi di menzogna», ma il senso dei legami interni a collettività spinte nel baratro del disinteresse e dell’apatia. Manichini che non distinguono più la struttura del realexxix dalla sua rappresentazione fantasmatica e artefatta. L’accettazione rassegnata, l’inferno.
L’humus decisivo in cui questo successo affonda, ribadisce Sovraimplicazioni, è la «triste e rabbiosa decadenza della società capitalistica che, per distrarre le generazioni più giovani dal futuro di difficoltà e guerra che sta preparando per loro, promette meraviglie». A condizione che non alzino la testa dallo smartphone: in tal caso rischierebbero di imbattersi in uno scenario fatto di devastazioni e ingiustizie sociali, intossicazione sistematica del pianeta, «brutale e cinico massacro di decine di migliaia di migranti alla ricerca di una (…) pur minima manifestazione di solidarietà di specie, l’assenza di scrupoli nella manipolazione dei mercati, fino alla ferocia tecno-bellica a cui il capitalismo fa ricorso per tenersi in vita». Una molteplicità sanguinante di prove schiaccianti, dice Curcio, che decreterà la condanna senza appello del sistema che le ha prodotte. Condanna che difficilmente arriverà dalle attuali generazioni, troppo pesantemente compromesse, ma da quelle future, le stesse «sulle quali ricadranno anche i pesanti effetti».
D’altronde, l’indifferenza rassegnata degli attuali cittadini, ormai tramutatisi in «consumatori coatti e sudditi passivi», è elemento sintomatico e insieme causativo dello stato attuale. Il malessere evidente delle classi sociali più impoverite si esprime con una vana quanto innocua «rassegnazione lamentosa», la quale pare reggersi sulla principale, insopportabile paura di una maggioranza perlopiù arrendevole e condiscendente: perdere, nella degenerazione ulteriore dello stato di crisi, «anche quegli (…) appigli di sopravvivenza che il sistema riesce a elemosinare» agli individui più «obbedienti e remissivi».
Altro elemento affrontato da Curcio, raramente evocato nelle sue implicazioni, è quello del cosiddetto smart working. Già la parola «smart, associata al lavoro — ragiona Curcio — dovrebbe insospettire. Come potrebbe mai essere ‘brillante’ e intelligente un lavoro in solitudine e intensamente sfruttato?». «A casa mi organizzo il tempo di lavoro come voglio e come mi è più comodo!». Idealizzazioni di un confinamento, imbellettamenti consolatori della propria remotizzazione. Il tempo del lavoro in remoto diviene onnivoro, continuo, finché la differenza tra orario di lavoro e tempo libero sbiadisce, fino ad essere indistinguibile. A trionfare, di fatto, è solo il compito imposto dall’azienda. L’elasticità richiesta al lavoratore si dilata spesso ben oltre le condizioni specificate negli accordi contrattuali. Un doppio vantaggio per le aziende, che vedono crescere la loro produttività e frantumano ulteriormente «la già quasi polverizzata compattezza dei lavoratori».
I rapporti individuali con l’azienda sono la fotografia di una debolezza strutturale in cui il rapporto di forza del lavoratore nei confronti dell’azienda precipita nei pressi dello zero. Un rintanarsi solipsistico, nota Curcio, in cui «i lavoratori non si incontrano più neppure nelle micro-pause alla macchinetta del caffè o nello spogliatoio, e a ciascuno di essi non resta che “trattare” singolarmente col padronexxx». La singolarizzazione estremizzata porta con sé la sparizione dal dibattito di temi come la riduzione delle ore di lavoro o l’ampliamento del tempo dedicato alle attività altre dell’esistenza. Altre rispetto al lavoro. Quelle non soggette a sfruttamento. Argomenti e prospettive un tempo dibattuti assai scompaiono dall’orizzonte, occultati dalle nebbie delle retoriche padronali. In compenso, altri temi salgono alla ribalta dell’attualità: depressioni, esaurimenti, stress da lavoro, burnout. Sono queste «le parole non proprio smart, ma più ricorrenti, che lo smart working porta nella sua bisaccia».
Dal predominio delle connessioni al cambiamento dei paradigmi disciplinari il passo è breve. Il salto epistemologico è netto: il panottico di Geremy Bentham, spiega Curcio, va in soffitta, e con lui i suoi dispositivi di controllo, le sue architetture, i suoi sguardi. L’osservatore degli odierni sistemi di controllo non è più una persona in carne ed ossa, «ma un sistema robotico di sorveglianza infarcito di algoritmi e sensori». Utilizzando il lessico dell’epistemologia marxiana, appare una relazione macchinica e cibernetica: «macchinica in quanto si configura come strumento capitalistico per l’accrescimento del valore». Cibernetica, in quanto necessita di Internet come infrastruttura necessaria alla realizzazione dei processi di connessione.
L’implicazione reciproca tra sorveglianza e punizione propria del dispositivo panottico è definitivamente archiviata. La sorveglianza di una popolazione digitale si basa ormai sulla sua scomposizione nelle singole persone cibernetiche, e l’intervento su ciascuna di esse avviene in linea diretta. E sul piano delle pratiche quotidiane, cosa succede? A certificare l’identità del dispositivo di ibridazione del sorvegliato, la validità del suo accesso, il tracciamento e l’immagazzinamento delle sue attività quotidiane, vi è un sistema di algoritmi. Nel contesto e nell’era dell’uso smodato di Internet, il riflesso all’obbedienza non si genera più dal timore di una punizione conseguente alla trasgressione di una regola, ma diviene «richiesta volontaria di accesso al dispositivo». Insomma, nell’illusione percettiva di accrescimento delle proprie possibilità esistenziali (di svago, lavoro, relazione, acquisto, ecc.) si intravede non la paura di una manipolazione ma, più che altro, principalmente il timore sotterraneo di «un eventuale negazione dell’accesso».
Il già descritto processo di ibridazione e contaminazione della persona cibernetica con i dispositivi digitali è un processo ancora incompiuto, ma che «galoppa velocemente sulle ali dell’infrastruttura di Internet, con già in sella oltre cinque miliardi di persone». La mutazione socio-antropologica in corso è tanto potente quanto dal destino ancora parzialmente incognito. Una mutazione «per molti versi obbligata dalle dinamiche espansive del capitalismo cibernetico», ma per altri «cercata e cavalcata», spesso con scarsa o nulla consapevolezza delle sue conseguenze collaterali più pericolose e profonde.
Un’altra conseguenza rilevante nel labirinto delle connessioni illimitate è la sterilizzazione e «il disinnesco dell’identità di presenza a sé stessi». Di tutto l’insieme dei processi e delle identità messe in gioco nella vita sociale e istituzionale, «l’identità di presenza a sé stessi si distingue per la funzione che svolge: l’attenzione cautelativa in relazione ai processi dissociativi che compiamo con le nostre pratiche». Essa, in sostanza, controlla e misura: 1) le identità che devono adeguarsi a quelle istituzioni o contesti di potere che esercitano sovraimplicazioni sui nostri percorsi individuali; 2) «le identità meno allineate che tendono a sporgersi oltre le piste istituzionalmente normate». In entrambi i casi, l’attenzione cautelativa sui processi dissociativi è esercitata come fosse una sorta di osservatore interno, pronto a suonare un allarme quando le nostre attività dissociate, o il loro eccesso, potrebbero esporci a compromettere gli equilibri sociali e fisici di sopravvivenza relazionale.
Un esempio nel quotidiano è «quel freno a dire fino in fondo quello che pensiamo» quando ci si trova in contesti relazionali gerarchizzati dove esprimersi liberamente comporterebbe conseguenze negative come licenziamenti, punizioni e simili. Altro esempio portato da Curcio riguarda situazioni non ordinarie, che trovano riscontro nelle testimonianze di persone sottoposte a tortura le quali, al fine di resistere agli strumenti dell’aguzzino, «ricorrono a dissociazioni di dislocamento in un “altrove” di conforto del proprio personale immaginario». Capacità di resistenza inosservabili da sorveglianti e aguzzini, decisive ai fini della resistenza ai dispositivi punitivi, circostanze che Curcio dichiara essere in grado di «certificare per esperienza personale nei molti anni della mia carcerazionexxxi».
E tuttavia, quando la sottrazione dissociativa smarrisce i suoi limiti, a rischio c’è la stessa sopravvivenza di chi la mette in atto. Le riflessioni di Curcio sull’identità di presenza in relazione alle dissociazioni ordinarie si attualizza nella consapevolezza che, nel labirinto delle connessioni, l’identità di presenza, avente come baricentro il corpo, non può varcare i confini delle macchine cibernetiche. Non può entrare, osservare o eventualmente «intervenire nelle spirali cibernetiche (…); insomma, non potrà svolgere quella funzione di salvaguardia che invece svolgeva nei contesti relazionali ancorché imprigionati nei dispositivi panottici benthamiani (…)xxxii».
L’intelligenza umana ha sempre cercato varchi di miglioramento, oltre il giogo del modo di produzione. Ha immaginato trasformazioni, perseguito «cambiamenti sociali che liberano gli umani da sfruttamenti e servaggi». Prospettive che il capitalismo-cibernetico che addestra le Intelligenze artificiali può al massimo «includere in un giudizio negativo». Oggi le persone cibernetiche si accontentano delle «correlazioni statisticamente più corrette che un certo algoritmo sulla base dei dati a cui ha accesso riesce a stabilire». Un atteggiamento preoccupante, «nella misura in cui l’attività di pensiero si fa acuta proprio quando intuisce e sperimenta connessioni improbabili». Lo spazio in cui sono avvenute da sempre intuizioni filosofiche, scoperte scientifiche, slanci poetici, progetti di trasformazione dell’esistente, sembra dissolversi. Quello spazio in cui l’essere umano è riuscito a proiettarsi dalla determinazione del probabile allo spazio aperto e libero dei possibili. L’Intelligenza Artificiale opera all’interno di quanto è istituito. Produce input a riprodurre l’esistente, si caratterizza ontologicamente nell’impossibilità di proiettarsi nel campo delle prospettive aperte, innovative, creative, quelle che Curcio definisce «istituenti».
L’Intelligenza artificiale non varca confini e, anzi, il suo scopo principale sembra consistere proprio nel difendere, consolidare, incrementare formazioni sociali, modi di produzione e consumo dominanti. Certo, la velocità e la competenza nelle risposte che fornisce è spesso sbalorditiva, né è priva di utilità in molteplici settori, ma tuttavia essa ha a che fare con la capacità di estrapolare dati, analizzarli, metterli in relazione. Ha a che fare «con il disciplinamento delle percezioni e delle decisioni». In ultima analisi, ha a che fare con la riproduzione dello stato di cose presente e con la colonizzazione dell’immaginario. Non con l’intelligenza. La confusione tra IA e intelligenza «sociale» ha come funesto correlato una sorta di coazione a ripetere e incentivare la riproduzione un sapere istituzionale omologato e standard, e le mistificazioni su cui questo si regge.
La domanda conclusiva di Sovraimplicazioni riguarda la durata della corrotta, mesta, asservita complicità acefala della maggioranza degli esseri umani. Quanto potrà ancora perdurare? L’inerziale, stucchevole, residuale riproposizione di forme aggregative e politiche che hanno caratterizzato il secolo scorso sembra aver fatto definitivamente il suo tempo. Almeno nella possibilità di incidere realmente sull’esistente. Cosa rimane allora? La consapevolezza che sperimentazioni istituenti provano, qui e là, ad esplorare con i propri mezzi sentieri non ancora battuti, verso «pratiche collettive autogestite e discontinue rispetto ai paradigmi del capitalismo cibernetico».
“Ma allora cosa si può fare?” ci si domanda spesso leggendo questo libro, di fronte all’ineluttabilità, alla cupezza e alla drammaticità di fenomeni planetari che solo un’ingenua sprovvedutezza, o una (per certi versi pur invidiabile) dissociazione dagli elementi intellegibili della realtà, può pensare di poter arrestare o sconfiggere. Lo sguardo conclusivo che Sovraimplicazioni lascia al lettore non indica modelli già noti in termini di compiuta formulazione teorica o avvenuta realizzazione pratica. Oltre il baratro del presente e la cupezza degli anni a venire, c’è solo l’orientamento a una filosofia e a una prassi delle relazioni umane, imperniata sui «cardini sperimentali di una socialità sorgiva» che sia in grado, se non di istituire, almeno di immaginare e perseguire modelli di vita diretti contro e oltre le gabbie immateriali del contesto attuale.
Pratiche di decolonizzazione, di autonomia cooperante, di creatività e solidarietà. Sarà possibile tentare di difendere o recuperare spazi di autonomia opposti alle derive descritte solo nel campo reale dei corpi e dei territori, nella vita di relazione, mediante pratiche di critica radicale alla trasformazione antropo-cibernetica. Pratiche che «diffidino dell’utopia e sfidino l’improbabile». L’unica indicazione di Sovraimplicazioni è questa.
i Sovraimplicazioni, R. Curcio, Sensibili alle Foglie, p.8.
ii “In sostanza (…) i processi di sovraimplicazione si configurano come meta-contesti obbliganti dai quali, di fatto, nelle ricerche sul campo e nelle analisi delle istituzioni non possiamo prescindere anche se quasi mai vengono evocati o, quando accennati, restano poco approfonditi per ciò che attiene il versante ideologico della loro funzione”. Op.cit., p.12
iii D’altra parte, chiosa Curcio, i poteri “si nutrono di intenzioni e perseguono scopi specifici, sicché nei loro conflitti di sovrapposizione la misura di affermazione dell’uno obbliga al sacrificio di un’egual misura dell’altro”.
iv P.15. Ricorda Curcio come già Marx, nel secondo volume dei Grundrisse, avesse demolito questa ideologia facendo notare come, “con l’affermazione espansiva dell’automazione – e noi, a maggior ragione, possiamo aggiungere della digitalizzazione (…) – gli strumenti di lavoro, sostituendo il lavoro vivo, diventano sempre più “complessi produttivi tendenzialmente autonomi”, sicché la scienza in essi applicata, oggettivandosi nel capitale, diviene a pieno titolo forza produttiva essa stessa”.
v P.61.
vi P.62.
vii P.62.
viiiIl costante riferimento di Curcio è a coloro che vivono nel contesto geopolitico occidentale.
ix P.82.
x P.78.
xi P. 72.
xii P.72.
xiii P.72.
xiv P.82.
xv Si tratta, scrive Curcio, dei cosiddetti «“modelli linguistici di grandi dimensioni”, sistemi algoritmici di deep learning addestrati su grandi quantità di dati e finalizzati ad estrarre stringhe di testo dei significati e comporre in risposta altre stringhe di testo».
xvi P. 41.
xvii P.43. «Un esempio (…) è il giochetto che si ritrova ovunque nell’informazione istituzionalizzata con le parole “semita” e “israeliano” (…), da cui traspare chiaramente l’intenzione di delegittimare chi manifesta sostegno per un popolo gettandogli addosso un’ombra emotiva agghiacciante».
xviii P.6.
xix P.88.
xx P.87.
xxi P.90.
xxii P.91.
xxiii P.66.
xxiv P.67.
xxv P.67.
xxvi “Lettera d’addio di alcuni professori e ricercatori del Centro Interdipartimentale Mente e Cervello”, Rovereto, 6/05/23, in: https://www.biuso.eu/2023/03/14/metaverso/, citato a p.66.
xxvii P.57.
xxviii P.58.
xxix Utilizziamo questa espressione “aristotelica” come semplificazione – diciamo così – retorico-espositiva, consapevoli che la questione è, dal punto di vista epistemico, a dir poco complessa. Non crediamo, infatti, che esista “una struttura del reale” in quanto tale, ontologicamente consistente e, dunque, conoscitivamente attingibile. Ma la frase ci sembrava funzionare bene così.
xxx P.80.
xxxi P.84.
xxxii P.87.