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Quando Castaneda andò a scuola dallo stregone: un viaggio oltre i confini della percezione

Redazione Spazio70

1968: l’antropologo Carlos Castaneda sconvolge il mondo con «The Teachings of Don Juan». Un libro che diventa leggenda, un viaggio iniziatico senza ritorno

di Sebastiano Palamara

L’albero rosso piangeva, gli avvoltoi volteggiavano in aria, il sole sanguinava. È il 1968 quando lo studente di antropologia Carlos Castaneda pubblica The Teachings of Don Juan: A Yaqui Way of Knowledge, edito in Italia col titolo A scuola dallo stregone, primo capitolo di un fenomeno culturale ed editoriale travolgente: 12 libri, milioni di lettori, un dibattito che infiamma immediatamente controculture e accademia. È l’inizio di un mito. Il «fenomeno-Castaneda» esplode immediato, trascinato da un successo dirompente – trecentomila copie vendute in un batter d’ali – trasformando lo scrittore statunitense di origini peruviane in icona «new age» e simbolo di controcultura. Molti, superficialmente, identificano i suoi lavori con l’esaltazione dell’uso di sostanze psicotrope, riducendo l’opera a un semplice manifesto della controcultura psichedelica. Nulla di più fuorviante: a guidare Castaneda in quello che diverrà un viaggio indimenticabile oltre le soglie della percezione, c’è la consapevolezza che nel cielo e sulla terra ci son più mondi di quanti i nostri paradigmi culturali riescano a immaginarne. Mondi in cui il tempo non costituisce un flusso continuo unidirezionale, in cui lo spazio non risponde alla geometria euclidea, la causalità non si piega ai crismi della logica aristotelica, né l’uomo è separato dagli altri esseri (e la vita non lo è dalla morte, o almeno: non al modo in cui il senso comune intende). Impossibile, allora, descrivere questa molteplicità come se si trattasse solo di una versione illusoria o «derivata» del proprio mondo.

Qualche anno prima dell’esordio editoriale, Castaneda, studente di antropologia a Berkeley – Università della California, ormai prossimo alla stesura della tesi di laurea, manifesta con alcuni docenti il proposito di condurre una ricerca sul campo finalizzata a raccogliere dati circa l’uso fatto dalle popolazioni indigene centroamericane di alcune piante medicinali. A incoraggiarne apertamente l’interesse, e a guidarne il lavoro dal punto di vista metodologico, l’antropologo Clement Meighan e il sociologo Harold Garfinkel. Il tempo, in quel tipo di ricerca, rivestiva un ruolo di importanza vitale: le enormi aree di conoscenza elaborate dalle culture «minori» sarebbero state presto spazzate via dagli incipienti processi della globalizzazione capitalistica in atto.

I VIAGGI IN ARIZONA, L’INCONTRO CON DON JUAN, L’INIZIO DELL’«APPRENDISTATO»

Fabrizio Clerici, La Speranza 1956

Castaneda si immerge nel progetto e, a partire dalla fine del 1960, intraprende numerosi viaggi nel sud-ovest degli Stati Uniti. Fondamentale si rivela l’incontro con un vecchio indiano di etnia Yaqui, abitante in Arizona ma nativo dello stato messicano di Sonora. Il vecchio, presentato a Castaneda come «brujo» (sciamano), si chiamava Juan Matus, Don Juan. Questi, negli intenti del giovane antropologo, sarebbe divenuto la fonte principale della ricerca. Ben presto, però, sotto la guida del vecchio indiano, quello che doveva essere un «semplice» lavoro etnografico di raccolta di dati circa l’uso delle piante diventa vera e propria iniziazione: Castaneda inizia la lenta e faticosa interiorizzazione dei processi cognitivi del mondo sciamanico. Il lungo apprendistato cui il giovane studioso si sottopone si basava sull’assimilazione d’una serie di precetti etici fondamentali e sull’assolvimento di compiti pratici, esercizi «spirituali» e tecniche di comportamento corporeo. Questa concomitanza di precetti, obblighi e tecniche era finalizzata a «disfarsi di sé», condizione preliminare e propedeutica – per dirla con Michel Foucault – a «rifare il sé», da intendersi come apertura a forme di interazione con le entità non-umane – animali, piante, spiriti – da cui l’universo sciamanico è popolato.

Spesso, nel racconto dei primi tempi dell’apprendistato, Castaneda riporta l’imbarazzo provato allorquando si ritrovava ad affrontare argomenti filosofici con il vecchio indiano, supponendo che questi non potesse avere la «finezza» intellettuale di un qualsiasi accademico occidentale. Progressivamente, tuttavia, la modificazione comportamentale e la risocializzazione che l’apprendistato comportava portarono Castaneda a rinunciare a molte delle sicurezze con cui si era approcciato a quell’esperienza, verso un territorio di confine in cui le usuali perimetrazioni concettuali,
come del resto la sua stessa identità, sembrarono vacillare. Una sorta di interregno in cui, avrebbe detto Cartesio, la vecchia dimora aveva già iniziato a sgretolarsi, sebbene la costruzione della nuova non fosse ancora terminata. Di fatto, l’interiorizzazione degli assunti ontologici basilari del mondo sciamanico – processo descritto nel dettaglio nei primi libri (al titolo d’esordio seguono Una realtà separata nel 1971 e Viaggio a Ixtlan nel 1972) – comportò il progressivo mutamento dei paradigmi cognitivi e percettivi ordinari, traghettandolo lentamente, ma inesorabilmente, verso un rapporto radicalmente «altro» con la vita di tutti i giorni e con il mondo circostante.

Al fine di corroborare il suo sapere, Don Juan usava alcune piante psicotrope: la Lophophora williamsii, meglio conosciuta come peyote; la Datura inoxia, detta comunemente «erba del diavolo», e un fungo allucinogeno del genere Psilocybe. Attraverso l’ingestione di tali sostanze, Don Juan induceva in Castaneda degli stati di coscienza alterata, che era solito definire come «stati di realtà non ordinaria». Premessa fondamentale del sistema del vecchio sciamano era infatti che quegli stati di coscienza fossero non allucinazioni, ma aspetti concreti, sebbene non ordinari, della vita quotidiana. Nei confronti di essi, in effetti, Don Juan agiva non come se fossero reali, ma in quanto reali.

Gli stati percettivi indotti dalle misture psicotrope erano utilizzati dal vecchio indiano per scardinare in Castaneda la certezza che la visione del mondo «ordinaria» fosse l’unica possibile; l’apparente indecifrabilità di quelle percezioni alterate costituiva dunque parte integrante del processo dell’acquisizione di consapevolezza che la visione ordinaria del mondo è solo un’interpretazione, una tra le tante possibili. Un mastodontico processo decostruttivo, non certo esente da difficoltà e traumi, al punto da condurre l’«apprendista stregone» Castaneda a scegliere di interrompere per anni il percorso dell’iniziazione. Si rileggano, a tal proposito, le pagine mozzafiato del finale di Viaggio a Ixtlan. Una lunga sospensione, in attesa di nuovi, ineluttabili, incontri.

UNA REALTÀ SEPARATA: IN VIAGGIO VERSO LE QUOTE DI UN SAPERE INDECIFRABILE

Max Ernst, Natura all’alba (1938)

Nelle pagine dei libri di Castaneda fluisce, caleidoscopica, una gamma di immagini e percezioni, d’inganni e assurdità. Come un aviatore dell’illusorio fino ad allora trascinatosi a terra, e infine riuscito a decollare, Castaneda si alza lento verso le silenziose quote di un sapere indecifrabile, in un viaggio verso strati di verità più profondi e decisivi per la comprensione di sé stessi e del mondo. Questa, in fondo, la difficoltà immane: come creare la coscienza di altri mondi quando tutto ciò di cui si dispone sono i termini del proprio? Quando il circostante pareva restituire solo chiusure, egoismi, irreggimentazioni identitarie, ossessioni normative e orizzonti piccolo-borghesi, man mano che la vita andava dissanguandosi, Castaneda, preso per mano da Don Juan,
reimpara progressivamente a vivere. Precetti etici folgoranti, degni di un filosofo stoico all’apice dell’epoché: «non offrirsi agli altri», «cancellare la storia personale», «non-fare», «perdere la
presunzione», «la morte è l’unica consigliera», «fermare il mondo», «arrestare il dialogo interiore», «esercitare la follia controllata». Concetti e pratiche atti ad esprimere il valore di stati di
coscienza in cui la realtà della vita quotidiana appare modificata. Quando il flusso delle interpretazioni si interrompe, quando si afferra lo scarto che permette di pensare l’impensato. Oltre l’ingenuo oblio del negativo, lontano dai grotteschi mercati dell’ingiunzione alla felicità. In fuga dalle valchirie dell’insignificanza, dall’egemonia dell’idiozia, dai supplementi domenicali sui rotocalchi del nulla.

Paradigmi di inattualità, fumo negli occhi degli spacciatori di nebbia, dei cesellatori di diagrammi insignificanti nell’infanzia plastificata e futile d’Occidente. Gli occhi possono essere le finestre per fissare la noia e le piccinerie del vivere quotidiano, o per guardare l’infinito. Mille miglia distante dalla cupa malinconia in cui la bolla ordinaria della percezione rinchiude. Quando, arroganti e stolidi, si è ignari che la propria visione del mondo è solo una descrizione tra le tante, un possibile tra i molti, spacciatosi però come «unico», in un delirio tautologico e paranoide. Schiaffi al volto dell’identico, alle sue ossessioni e farneticazioni.

Negli scorci di una steppa emblematica, tra effigi remote logorate dal tempo e ferite rivisitate in sogno, brilla costante e luminosa la stella umbratile di Don Juan, l’astuto fabbro di inganni, il brujo immerso senza appigli nelle sabbie mobili di un potere ormai spogliato delle incombenze dell’Io.

OLTRE COSTRIZIONI E CODIFICAZIONI, ARCHETIPI E STRUTTURE, CREDENZE E INTERPRETAZIONI

Carlos Castaneda

Alberto Savinio, L’isola dei giocattoli, (1930)

Castaneda veleggia sui venti dell’incredulità, finché lo schema logico ordinario si avvia, infine, a sgretolarsi. Quando le colonne d’Ercole della normalizzazione, avvistate dalla plancia del galeone dei rimpianti, apparvero solo come un rantolo della memoria. Man mano che il racconto progredisce, dualismi e codici tendono a disfarsi, forme e persone si dissolvono in una materia impalpabile. Oltre le costrizioni e le codificazioni, gli archetipi e le strutture, le credenze e le interpretazioni. Verso la vita prima del reticolo organizzato di prigioni in cui gli uomini l’hanno organizzata. Là dove non ci sono né veli né nebbie, quando il geroglifico indecifrabile dell’esistenza, come una parola da sempre pietrificata, si scioglie, versando piogge feconde nelle sue pieghe più segrete. «Tutto quello che posso dirti è che siamo esseri fluidi e luminosi fatti di fibre».

Come scrive Gilles Deleuze, «non è più un Io che sente, agisce e si ricorda, è una bruma brillante, una nebbia gialla e scura; che ha affetti e prova movimenti, velocità». Tracce di vita rubate alle peregrinazioni autoreferenziali, ai cadaveri inermi e maleodoranti dell’abitudine, al regno della quantità, della meccanizzazione dell’umano. Eludere la sorveglianza dei poliziotti della coscienza, dalla moltiplicazione delle loro maschere, e fuggir via. Lontano, dai mille inganni proiettati sugli schermi dell’assenza. Verso il deserto della libertà, fino al punto in cui le ultime nostalgie non sgocciolano più via tra le crepe della memoria. All’esplodere delle risate fragorose di Don Juan i tempi del giorno parevano alterarsi, come lampi di luce che squarciano fasci indolenti di tenebre, in grado di risuonare oltre i tuoni e le disgrazie. In una ramada sull’altipiano, ai confini ignoti di quel deserto americano, nell’aria di vetro liquido di un agosto senza dio, Castaneda ode canzoni di naviganti svaniti da millenni, intravede chiavi ermetiche custodite da uccelli variopinti. Un torrente di energia parve spargersi nella sua vita, quando giunse alle soglie delle scie immobili e dei sogni, quando il susseguirsi delle stagioni si sovrappose sempre più al prisma dell’immanenza. Finché, finalmente, riuscì a smarcarsi definitivamente, da sé, dal proprio tempo, dalla propria lingua.

Un lunghissimo dibattito, anche accademico, si è interrogato sulla veridicità dei suoi scritti: realtà romanzesca o esperienza «veritiera»? I giganteschi Gilles Deleuze e Felix Guattari una loro idea se l’erano fatta: «Pagine frutto di un sincretismo e non di uno studio etnografico? Tanto meglio». Forse, però, il commento definitivo è quello di Octavio Paz: «Libri di fantasia? Se lo fossero, sono i più belli che abbia mai letto». Oltre la retta via di un innaturale ordine delle cose, incomprensibile all’apparenza immota e arrogante del sottobosco d’Occidente. Mentre il cerchio smarriva il suo centro, la danza degli scheletri tra le lacrime era già iniziata.