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L’atomica infranta. La breve parabola del nucleare militare italiano

Redazione Spazio70

I governi di fine anni Cinquanta non si appiattirono su una linea filostatunitense nonostante il ministro della Difesa di quegli esecutivi fosse Paolo Emilio Taviani, uomo considerato molto vicino a Washington. Fu proprio lui a chiedere di abbandonare le restrizioni sulle nuove armi per le Nazioni della Nato. Ciò comprendeva anche il nucleare. Come si era arrivati a questo punto?

di Tommaso Minotti

L’Italia ospita sul proprio territorio nazionale una quantità notevole di armi nucleari. La particolarità, com’è noto, è che sono nella disponibilità dello Stato italiano solo in parte. Esse, infatti, sono bombe statunitensi, presenti nelle numerose basi sparse in diverse zone del Paese. Su queste armi il dibattito è stato, per anni, feroce ed esiste un discreto archivio di articoli e discussioni. Ricchezza bibliografica che manca per una storia meno conosciuta, che riguarda, invece, il nucleare italiano. Un’epopea tanto travagliata quanto la contestazione alle atomiche a stelle e strisce.

Il dibattito attorno al nucleare civile è stato lungo e complesso. Il referendum del 1987 sembrò, all’epoca, mettere fine a tale discussione pubblica. La chiusura delle centrali di Trino, Caorso, Latina e Sessa Aurunca fu un momento decisivo, ma non mise un punto alla vicenda tant’è che, ancora oggi, se ne discute. Meno conosciuta è la storia del programma militare nucleare. Ci fu un periodo, infatti, in cui Roma cercò di costruire il proprio deterrente atomico, nel pieno di una Guerra Fredda che vedeva nascere nuovi ambiziosi soggetti politici.

GLI INIZI

Un missile «Jupiter»

Il nostro Paese aveva avuto un ruolo molto importante all’alba del mondo nucleare con i famosi fisici del gruppo di via Panisperna, guidati da Enrico Fermi. Dopo la fuga di questi scienziati, scappati dall’Italia a causa delle leggi razziali, rimase solo Edoardo Amaldi, il quale, nonostante la sua opposizione al regime, provò a salvare il salvabile delle ricerche sul nucleare. Tutto venne interrotto dal conflitto bellico e, per un certo periodo di tempo, ci fu una sorta di stasi. Il secondo dopoguerra, infatti, fu segnato da grandi difficoltà economiche, politiche e militari. Di conseguenza, il nucleare non era nei pensieri della nuova classe politica. Questa fase terminò presto. Lo sviluppo dell’atomo era visto come una possibile soluzione per ritrovare prestigio, soprattutto in politica estera. I militari italiani, nel campo delle nuove ricerche sul nucleare, avevano le idee chiare sui possibili sviluppi in teatri di guerra: la bomba atomica avrebbe dovuto essere un’arma da utilizzare a supporto di operazioni di terra.

Non a caso, era il periodo in cui la Guerra Fredda attraversava una delle sue fasi più acute. La forte presenza di esponenti dell’esercito all’interno del rinato programma nucleare italiano ebbe come conseguenza la povertà di dibattito pubblico sul tema, causata anche dai timori per una sinistra filosovietica elettoralmente molto robusta. L’impossibilità di sviluppare armi nucleari proprie, spinse i politici italiani ad accettare quelle di altri. I primi missili nucleari statunitensi arrivarono in Italia nel settembre del 1957. Il controllo di queste atomiche era totalmente in mano agli statunitensi. Un elemento percepito in maniera negativa da una parte della classe politica che, pur avendo bene in mente quale fosse la posizione internazionale dell’Italia, cercava un proprio ruolo sullo scenario globale.

Due anni dopo, nel 1959, arrivarono i missili Jupiter a Gioia del Colle, in Puglia. Queste armi atomiche erano in una base controllata dall’aeronautica italiana. Ciò responsabilizzava maggiormente Roma che monitorava il luogo dov’erano mantenute e contribuiva con il proprio personale alla loro sicurezza.

UN FERTILE RETROTERRA POLITICO: IL NEO-ATLANTISMO

Giuseppe Pella

I governi di fine anni Cinquanta non si appiattivano su una linea filostatunitense nonostante il ministro della difesa di quegli esecutivi, capeggiati da Pella, Fanfani, Scelba, Segni e Zoli, fosse Paolo Emilio Taviani, uomo considerato molto vicino a Washington. Ma fu proprio Taviani a chiedere di abbandonare le restrizioni sulle nuove armi per le Nazioni della Nato. Ciò comprendeva anche il nucleare. Come si era arrivati a questo punto?

Le elezioni del 7 giugno 1953 avevano segnato la fine politica di De Gasperi. L’istituzionalizzazione del centrismo, fondata sulla nuova legge elettorale, subito definita «legge truffa» dall’opposizione, non fu raggiunta. Ciò comportò il ritiro dalla vita pubblica dello statista trentino a cui fece seguito, poco dopo, la morte. Con la scomparsa di De Gasperi, nella Democrazia Cristiana emersero nuovi impulsi, anche in politica estera. Giuseppe Pella, nuovo presidente del Consiglio, dopo la formazione del suo governo sostenuto da Dc, Pli, Pri e monarchici con l’astensione di socialdemocratici e missini, affrontò con enorme decisione la questione di Trieste. La città friulana era stata protagonista di una serie di manifestazioni filoitaliane, a cui gli occupanti angloamericani avevano risposto con durezza, provocando sei morti. La reazione di Pella fu molto energica. Egli, infatti, minacciò di uscire dall’Alleanza atlantica.

De Gasperi, questa fu la sua ultima operazione politica rilevante, e Iniziativa democratica, la principale corrente della Dc, si contrapponevano a Pella e alle iniziative di Gronchi e Gonnella, inclini, come il Presidente del Consiglio, a una linea di politica estera più autonoma. Prevalsero i primi contro i secondi. Grazie a una manovra di Scelba, il governo Pella cadde. Le pulsioni autonomiste italiane si placarono, ma non cessarono del tutto. La volontà di rimodulare la politica estera di Roma si era, oramai, sedimentata. Nel 1955, inoltre, fu eletto presidente della Repubblica proprio Giovanni Gronchi, su cui era confluita un’eterogenea maggioranza tra socialcomunisti, un ruolo decisivo nella sua elezione fu svolto da Nenni, sinistra democristiana e destra.

Gronchi era fautore di una politica estera non imperniata su un rigido atlantismo. La pensava allo stesso modo Amintore Fanfani, che stava emergendo come uomo forte all’interno del maggior partito di governo. Il neo-atlantismo, termine coniato da Pella nell’aprile 1957 sul Quotidiano, si traduceva in una politica mediterranea più autonoma e in una maggiore attenzione alle istanze delle nuove Nazioni africane e mediorientali. Ne era protagonista anche Gronchi. Sempre nel 1957 egli, con la sua consueta autonomia, scrisse a Eisenhower una lettera che evidenziava le manchevolezze statunitensi e i dubbi sull’Alleanza atlantica. La missiva venne bloccata dal segretario generale del ministero degli Esteri Rossi Longhi, d’intesa con il ministro degli Esteri Martino e il presidente del Consiglio Segni.

Questo insieme di pulsioni, qui brevemente trattate, dimostra come Roma stesse sviluppando una propria politica estera autonoma, con obiettivi che, parzialmente, si discostavano da quella della propria superpotenza di riferimento. Anche così si spiega la breve parabola del programma militare nucleare italiano.

DALLA FORZA MULTILATERALE AL «CAMEN»

Giulio Andreotti in una immagine istituzionale dei primi anni Sessanta

Washington, nel tentativo di evitare che Nazioni europee sviluppassero una propria deterrenza fuori dal contesto Nato, tentò di creare la Forza multilaterale. L’Italia era favorevole alla gestione comune delle armi atomiche e, nella persona del suo ministro della Difesa Taviani, appoggiò la Forza multilaterale. In questo contesto, la marina italiana lavorò su un sottomarino a propulsione nucleare e sull’incrociatore leggero Giuseppe Garibaldi, dismesso a fine Seconda guerra mondiale ma opportunamente modificato per servire da lanciamissili. La riconversione fu un successo e il nuovo ministro della Difesa, Giulio Andreotti, fece richiesta ufficiale agli Stati Uniti di ulteriore assistenza tecnica.

Lo scopo non era soltanto la modernizzazione del Giuseppe Garibaldi, ma, come si approfondirà in seguito, l’equipaggiamento di una parte della flotta con la propulsione nucleare. L’iniziativa di Andreotti cadde nel vuoto così come la Forza multilaterale. Washington e Mosca stavano riflettendo sul trattato di non proliferazione, inteso come un modo per mettere un limite alle Nazioni che aspiravano ad avere l’arma atomica. Sull’altare di questo accordo sovietico-americano furono sacrificate la Forza multilaterale e la definitiva riconversione del Giuseppe Garibaldi.

Nel 1955 fu creato, all’interno dell’Accademia navale di Livorno, il Camen (Centro per le Applicazioni militari dell’Energia nucleare). Un paio di anni dopo, tra la fine del 1957 e la primavera del 1958, Germania Occidentale, Francia e Italia negoziarono la creazione di un «cartello» per la produzione di armi moderne, atomica compresa. Tuttavia, non ci fu alcun seguito. Tramontata l’ipotesi europea, si rafforzarono le strutture nazionali — il Camen in primis. Nel 1961 venne iniziata la costruzione di un reattore nucleare che fu installato a San Pietro a Grado, nelle vicinanze di Pisa dove, nel 1962, si era trasferito il Camen. Nel frattempo, questa struttura era diventata un centro di formazione tecnica grazie alla creazione di alcuni corsi di laurea specializzati in tale ambito. Più o meno nello stesso periodo, anche i militari italiani erano impegnati in una serie di addestramenti gestiti dagli statunitensi per essere pronti in caso di operazioni con armi atomiche. Il Camen riuscì a conseguire una serie di successi non indifferenti tra cui la già citata realizzazione di un reattore a fissione nucleare, il Galileo Galilei, completato nel 1963.

Procedevano anche i lavori in ambito militare con la progettazione della Classe Marconi della Marina, sotto gli occhi attenti del ministro della Difesa Andreotti. Erano previste due unità sottomarine d’attacco a propulsione nucleare. Ancora una volta, tuttavia, Roma dovette affrontare la malcelata opposizione di Washington. Gli apparati statunitensi si rifiutarono di supportare questa idea e, dunque, l’iniziativa della Classe Marconi fu affossata. Si optò, così, per la costruzione di una sola unità di supporto logistico, anch’essa a propulsione nucleare. Aveva il nome provvisorio di Enrico Fermi.

Tuttavia, anche in questo caso, si dovette fare un passo indietro e il progetto si arenò. Nel dicembre 1966, dunque, il Camen aveva raccolto poco o nulla dal punto di vista militare se non la collaborazione con altri settori dello Stato, come la Italcantieri, di base a Trieste e parte del gruppo Iri.

IL RUOLO DELLA MARINA MILITARE E IL PRECEDENTE EUROPEO

Il missile «Alfa» (Giuseppe De Chiara, opera propria)

Oltre al Camen, anche altri settori del mondo della Difesa si interessarono all’utilizzo del nucleare nel proprio campo. Nel dicembre 1964, il generale Paolo Moci aveva chiesto al capo di Stato maggiore della Difesa Aldo Rossi di avviare la realizzazione di un deterrente nucleare italiano, tant’è che il percorso verso la firma del Trattato di non proliferazione fu molto tortuoso. Moci aveva anche avvicinato Luigi Broglio, uno dei padri dell’astronautica italiana. Sette anni dopo le mosse di Moci, nel 1971, la Marina militare iniziò la costruzione del missile Alfa grazie alla collaborazione con Broglio. Il vettore fu testato tra il 1973 e il 1975 in Sardegna. Alfa poteva portare una testata nucleare e colpire tutti i Paesi del blocco orientale. Era l’ennesima dimostrazione che l’Italia rimaneva un «Paese soglia», cioè una Nazione in grado di produrre una bomba nucleare in tempi relativamente brevi. Si poteva, in conclusione, fare un’esplosione dimostrativa in stile indiano.

La Forza multilaterale ha un suo precedente che risale a fine anni Cinquanta. Nel 1956 i ministri della Difesa di Germania Ovest, Francia e Italia si erano ripetutamente incontrati per creare armamenti nucleari in condivisione. Queste riunioni erano coperte dal più assoluto segreto ed erano gestiti da Jacques Chaban-Delmas, Franz Joseph Rauss e Taviani. La fase storica era complessa. Dopo la crisi di Suez, dove Washington e Mosca si erano coalizzate contro Francia e Inghilterra dimostrando, in un certo senso, l’inaffidabilità degli Stati Uniti nei confronti del Vecchio Continente, le potenze europee volevano conquistarsi una propria autonomia strategica.

Parigi, Roma e Bonn parlavano proprio nell’ottica di costruirsi una propria indipendenza. Tuttavia, tra le tre Nazioni era la Francia ad avere un ruolo maggioritario. Il tentativo di coordinarsi fallì a causa della presa di posizione di De Gaulle. Egli voleva creare una sua Force de frappe indipendente, senza legarsi ad alcun centro di potere esterno. Tutti i soggetti coinvolti, inoltre, erano connessi in maniera più o meno stretta a Washington con cui dialogavano anche a livello di sviluppo del nucleare. Lo stesso Taviani era considerato decisamente filoatlantico, atteggiamento testimoniato dal suo coinvolgimento nella rete clandestina di Gladio.

IL TRATTATO DI NON PROLIFERAZIONE

L’ambasciatore Roberto Gaja

La firma del Trattato di non proliferazione arrivò dopo un lungo dibattito che coinvolse non solo il mondo della politica, ma anche la società civile e gli ambienti diplomatico-militari. Il Presidente della Repubblica Giovanni Leone appose il suo nome alla legge 131 il 24 aprile 1975. Il Trattato era basato su tre principi: il disarmo, ovviamente la non proliferazione e l’uso pacifico dell’energia nucleare. Si dovettero superare le resistenze di vari ambienti politici e diplomatici: alcuni settori nazionalisti, coloro che ritenevano la non proliferazione una partita persa in partenza, vista la bomba di Nuova Delhi, e personaggi di primo piano del mondo della diplomazia come Ducci e Roberto Gaja.

Quest’ultimo era un convinto sostenitore dell’Italia nucleare. Scrisse numerosi libri e articoli, alcuni sotto lo pseudonimo di Roberto Guidi. I due principali sono: Le conseguenze politiche della bomba atomica e Politica estera e armi nucleari. Gaja sosteneva che Roma dovesse sviluppare il suo comparto nucleare in un’Europa atomica. La pensava uguale Achille Albonetti, alto ufficiale del Comitato nazionale per l’Energia nucleare.

Albonetti riteneva importante formare una forza nucleare europea all’interno della Nato. Lui, Ducci e Gaja parteciparono a un seminario sulla strategia nucleare, a cui era presente anche Kissinger. Ciò evidenzia in maniera piuttosto chiara l’inserimento ad alto livello dei diplomatici italiani nel mondo dell’atomica. Tra questi, proprio Gaja ne era il massimo esponente. Secondo lui, la parità strategica raggiunta da Usa e Urss avrebbe penalizzato l’Europa, la quale doveva dotarsi di armi nucleari proprie.

La posizione di Gaja, simile a quella del giornale Nuovo Mondo d’Oggi come si vedrà a breve, verteva sull’idea che il Trattato fosse uno strumento per mantenere lo status quo sovietico-statunitense. Nell’articolo del professor Leopoldo Nuti, su Gaja e il mondo nucleare, si evidenzia come il dibattito sull’atomica si sia intensificato nel 1974, dopo l’esplosione dimostrativa sperimentata con successo dall’India. Gaja voleva che la politica italiana riconsiderasse la propria posizione e interpretò la ratifica come un fallimento dei suoi tentativi.

Dunque, anche alcuni ambienti diplomatici erano contrari al Trattato di non proliferazione. Con questo accordo, Usa e Urss volevano mettere un punto all’aumento delle Nazioni che potevano produrre un’arma nucleare. All’interno del panorama politico italiano, il Partito repubblicano italiano era decisamente favorevole al Trattato così come comunisti, socialisti e, seppur con qualche discrimine, democristiani. In tutto l’arco parlamentare, tuttavia, rimaneva un certo scetticismo. Contrari alla firma erano il Partito liberale italiano e i missini. A inizio 1969, il governo Rumor aveva firmato il Trattato senza, tuttavia, ratificarlo e aggiungendoci un lungo protocollo con dodici riserve. Per sei anni, poi, il Trattato sparì dal dibattito pubblico.

Nel 1975 la situazione era cambiata e il fatto che Pri, Dc, Psi e Pci fossero favorevoli permise la definitiva ratifica del TnP. Era la fine del sogno nucleare e militare di Roma.

LA CAMPAGNA DI «NUOVO MONDO D’OGGI»

Un numero di «Nuovo mondo d’oggi» (29 maggio 1968)

Per comprendere meglio gli ambienti e i personaggi che appoggiavano il nucleare italiano occorre analizzare la campagna di stampa uscita su Nuovo Mondo d’Oggi, ascrivibile all’area della destra italiana. Quest’ultimo settimanale riteneva inscindibile il piano militare e quello civile, schierandosi apertamente contro il Trattato di non proliferazione voluto da Usa e Urss. Il periodico aiutava a definire gli schieramenti politici pro e contro il Trattato. Nella rubrica Italia segretissima, l’anonimo autore segnalava che il partito Nuova repubblica di Pacciardi e la sinistra democristiana di Donat Cattin avevano assunto una posizione contraria alla manovra antinucleare di Mosca e Washington su cui c’erano perplessità anche da parte dei tavianei, dei fanfaniani e del settimanale Settegiorni riconducibile alla corrente di Carlo Donat-Cattin.

Il giornalista e politico Giano Accame, che conosceva molto bene Pacciardi dal momento che era un suo stretto collaboratore, scrisse diversi articoli sul nucleare, ospitati da Nuovo Mondo d’Oggi. Il 17 luglio 1968, presentava un pezzo dal titolo La castrazione dei casti, riprendendo una frase del ministro della Difesa francese Messmer detta mentre commentava il Trattato di non proliferazione. Accame segnalava il ruolo dei repubblicani di La Malfa che spingevano per avere garanzie dal presidente del Consiglio Leone sulla firma del Trattato, che, secondo l’articolo, era tuttavia lesivo della sovranità nazionale.

Accame elencava una serie di favorevoli allo sviluppo nucleare italiano, in tutti i campi. Tra essi c’era anche La discussione, organo d’informazione vicino a Taviani e diretta da Albonetti, già citato fautore di un nucleare europeo. Anche alcuni socialisti erano contrari al Trattato. Accame sottolineava come gli schieramenti pro e contro il nucleare fossero diversi dalle consuete divisioni tra sinistra e destra. Il giornalista nato a Stoccarda procedeva segnalando i motivi per non firmare. In primis, l’esecutivo Leone II era nato come un governo balneare, funzionale al disbrigo degli affari correnti. La seconda ragione era che non tutti «i Paesi appartenenti alla nostra stessa area geopolitica» avrebbero firmato il trattato. Come terzo e ultimo motivo, Accame adduceva l’incostituzionalità dello stesso, in quanto in conflitto con l’articolo 11:

L’Italia ripudia la guerra come strumento di offesa alla libertà degli altri popoli e come mezzo di risoluzione delle controversie internazionali; consente, in condizioni di parità con gli altri Stati, alle limitazioni di sovranità necessarie ad un ordinamento che assicuri la pace e la giustizia fra le Nazioni; promuove e favorisce le organizzazioni internazionali rivolte a tale scopo.

Secondo Accame, con la firma si sarebbero violate le citate «condizioni di parità» visto che l’Italia non avrebbe potuto armarsi con l’atomica, opzione possibile per quelle Nazioni che non avrebbero sottoscritto il discusso Trattato.

LA FIGURA DI EGGARDO BELTRAMETTI

«Nuovo mondo d’oggi» sul nucleare italiano (l’articolo è di Eggardo Beltrametti)

Nuovo Mondo d’Oggi non affrontava solo il tema del Trattato, ma anche la crisi dell’Euratom e la debolezza del comparto nucleare civile italiano. Il periodico puntava molto sullo sviluppo di questo settore che aveva potenzialità da esplorare, anche se ciò avrebbe significato assumere una posizione di contrasto con gli Stati Uniti. Un impedimento non indifferente, come si segnalava:

Le nostre classi dirigenti non ne sono interamente consapevoli. Certe insistenze di ben individuati settori politici, di cui si è fatto portavoce con una pesante azione ricattatoria in sede parlamentare il leader del PRI, Ugo La Malfa, per una sollecita, assurda adesione al trattato puzzano, lontano un miglio, di servizio da rendere ai “padroni”.

Sempre Accame, per rafforzare le proprie idee, descriveva la situazione della Svizzera, una Nazione di lunghissima tradizione neutralista che non voleva firmare il Trattato di non proliferazione. In questi articoli emerge con chiarezza l’antiamericanismo di destra del giornalista ospite a Nuovo Mondo d’Oggi. Gli scritti presentano posizioni fortemente critiche verso le politiche di Stati Uniti, Unione Sovietica e Regno Unito, maggiori sostenitori del Trattato, ma, al tempo stesso, Paesi con la maggior disponibilità di bombe atomiche. Accame scriveva che i lupi avevano costretto le pecore a rimanere tali.

Washington, che aveva portato avanti diverse azioni di disturbo nei confronti del sistema nucleare europeo, esercitava una decisa pressione su Roma, coadiuvata dalla Santa Sede. Lo evidenzia Accame nell’articolo Perché Leone firma. Così scriveva:

Precipitandoci a firmare noi perdiamo qualunque peso contrattuale nei confronti dei paesi vicini e riluttanti. Perché non prendere allora, ma prima di firmare, l’iniziativa di una conferenza dei Paesi europei e mediterranei, per esaminare insieme la questione e non rischiare di impegnarci ad essere l’unico vaso di coccio in mezzo a vasi di ferro o che almeno si riservano di poterlo diventare in futuro?

Un altro ospite di Nuovo Mondo d’Oggi fu Eggardo Beltrametti, il quale scrisse una serie di articoli sul nucleare italiano. Il sottotitolo di questa sequenza di pezzi era: L’industria nucleare italiana. Illusioni e realtà. Come Accame, Beltrametti non tralasciava i problemi di natura tecnica dell’industria nucleare italiana. L’esperto militare si concentrò anche sulle esigenze della Difesa nell’ambito del nucleare. Si segnalava la vulnerabilità di tale comparto, lasciato sostanzialmente senza controlli da parte dell’esercito. Beltrametti trattava anche il ruolo della Marina militare, assolutamente centrale. Le pressioni americane avevano messo in difficoltà l’industria nucleare e spiegava anche le ragioni dietro il fallimento dell’Euratom:

Ma l’Euratom ha deluso. Già, secondo noi, è partito male quando dal suo ventaglio di iniziative, ha escluso tassativamente le ricerche che avessero attinenza con gli usi militari dell’energia atomica.

La campagna di Nuovo Mondo d’Oggi, portata avanti da due firme molto significative come Accame e Beltrametti, è utile per comprendere quali fossero alcuni tra gli ambienti favorevoli allo sviluppo del nucleare italiano, sia a livello civile sia militare. Le caratteristiche di Nuovo Mondo d’Oggi sono assai peculiari e, in questi articoli, emerge la presenza di una Destra antiamericana e anticomunista che propugna una terza via italiana ed europea, da svilupparsi anche nel mondo nucleare.

UN DESTINO MANCATO

La vicenda della bomba atomica italiana venne profondamente influenzata da ragioni geopolitiche, di politica interna e da pressioni straniere. Rimane il fatto che il principale partito di governo, la Democrazia Cristiana, volle tenere aperta l’opzione nucleare il più possibile, anche nel contesto di collaborazione con altre Nazioni europee.

Per ovviare alla mancanza di un proprio deterrente nucleare, sempre più complesso da realizzare per via della situazione internazionale, Roma tentò di avere un peso all’interno della catena di comando della Nato. Il dibattito sull’uso dell’energia atomica sta riprendendo quota mentre, quasi in maniera ovvia, non si parla più di una bomba nucleare pienamente italiana.

Se da un lato è difficile comprendere quale sarà il futuro del nucleare civile, rimane da segnalare la storia, piuttosto nascosta, dei tentativi militari nucleari italiani.