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Il processo Ranucci e l’abolizione della ghigliottina in Francia

Michele Riccardi Dal Soglio

Il caso di Christian Ranucci ha sollevato interrogativi sulla giustizia francese degli anni Settanta, diventando un simbolo di un'epoca segnata da errori giudiziari, dibattiti sulla pena di morte e un clamore mediatico che ha accelerato l'abolizione della ghigliottina

«La France a peur», la Francia ha paura. Con queste tre parole, marchiate a fuoco nella mente e nel cuore dei francesi, il giornalista televisivo Roger Gicquel esordiva su TF 1, all’apertura del telegiornale delle 20, il 18 Febbraio 1976. Nel suo memorabile editoriale, dedicato al tragico epilogo del sequestro del piccolo Philippe Bertrand, rapito e ucciso a scopo di lucro da Patrick Henry, Gicquel invitava gli ascoltatori a non farsi vincere dalla paura, dal panico, dall’irrazionale voglia di castigo e vendetta che permeava un’opinione pubblica angosciata ed esasperata dall’ennesimo sequestro seguito da infanticidio avvenuto nel Paese d’oltralpe.

Descrivevano benissimo, le parole di Gicquel, l’ondata emotiva che percorreva la Francia intera in quei giorni. La stessa che avrebbe reso difficilissimo, poche settimane più tardi, mantenere il delicato equilibrio necessario al dibattimento finale di un altro caso di infanticidio che, ancora oggi, a distanza di cinquant’anni, spacca in due l’opinione pubblica francese: l’affaire Ranucci, il caso giudiziario che ha accelerato il passo della Francia nel cammino verso l’abolizione della pena capitale.

L’ABOLIZIONE DELLA GHIGLIOTTINA? SOLTANTO NEL 1981

Robert Badinter fotografato in Parlamento durante il discorso per l’abolizione della pena di morte (1981)

Nella Francia degli anni Settanta era ancora vivissimo il dibattito attorno ai temi che ogni Paese democratico e liberale deve prima o poi affrontare per definirsi tale. Simone Veil portava avanti la battaglia per la legge sull’interruzione di gravidanza, che vide la luce nel 1974. Se la norma incontrò una fortissima opposizione, la Veil ricevette insulti personali e accuse di voler autorizzare uno stermino legalizzato. Gli strali provenivano soprattutto dagli strenui difensori della pena capitale, un istituto che nessun governo francese, a partire dall’epoca della Rivoluzione del 1789, aveva avuto fin lì la voglia o la forza di abrogare.

Soltanto nel 1981, per l’esattezza il 9 ottobre, il ministro della Giustizia francese, Robert Badinter, riuscirà a far votare dall’Assemblea Nazionale la definitiva abolizione della pena di morte, per la quale si era battuto personalmente come attivista e avvocato difensore di diversi imputati di omicidio tra i quali, appunto, il già citato Patrick Henry. A riprova dell’inutilità della pena capitale come deterrente, Badinter citava come lo stesso Henry fosse stato presente tra coloro che avevano celebrato la condanna a morte di Roger Bontemps, difeso dal futuro Guardasigilli e giustiziato per duplice omicidio.

Badinter era quindi riuscito a evitare la quasi sicura ghigliottina a Henry. Tuttavia restano pochi dubbi sul fatto che la notizia dell’atroce delitto commesso da quest’ultimo avesse fatto spostare il verdetto dei giurati del caso Ranucci verso la condanna a morte.

Con i se e con i ma non si scrive di certo la storia, però nel corso degli anni in molti si sono chiesti se Ranucci avrebbe avuto salva la vita nel caso in cui Badinter avesse seguito il suo caso prima del caso Henry. Alla luce di un’analisi razionale e priva di emotività, verrebbe da pensare di sì perché Badinter, al di là del suo carisma, non avrebbe mai giocato la carta dell’innocenza del suo assistito, ma quella dell’incongruità della pena capitale applicata al caso, al contrario di quanto invece, in sede giudiziaria e per molti anni a seguire in ambito giornalistico, è stato fatto.

Ma entriamo nella vicenda per conoscerne meglio i dettagli.

UN INCIDENTE STRADALE E UN DETTAGLIO APPARENTEMENTE INSIGNIFICANTE

La Peugeot 304 di Christian Ranucci ispezionata dagli inquirenti nel cortile del Commissariato di Marsiglia

3 giugno 1974, giorno festivo di Pentecoste. All’incrocio tra la RN 96 e la RN 8-Bis, strada che porta fuori Marsiglia, si verifica una collisione tra due veicoli: una Renault R16, con a bordo M. Vincent Martinez e la fidanzata, e una Peugeot 304 Coupé arrivata da destra a tutta velocità dopo aver bruciato uno stop. La collisione, pur non provocando danni agli occupanti, era stata abbastanza forte da mandare in testacoda la Peugeot, che poi si era data alla fuga, pochi secondi dopo, nella direzione di provenienza.

Poiché la R16 di Martinez non sarebbe potuta ripartire a causa dei danni subiti al frontale, gli occupanti di una Renault 17 che avevano assistito all’incidente, i coniugi Aubert, si erano offerti di inseguire la Peugeot per prenderne almeno il numero di targa. Dopo pochi chilometri, avevano visto l’auto fermarsi. Dalla stessa era sceso un giovane: considerata la scarsa entità del danno, lo avevano invitato a non scappare. Il ragazzo aveva risposto che si sarebbe ripresentato da lì a poco sul luogo dell’incidente; in realtà, si preparava a nascondersi tra le fronde del bosco soprastante la RN 8-bis, senza quindi dare seguito a quanto promesso. Gli Aubert , dal canto loro, una volta tornati dai Martinez, avevano fornito la targa e ogni dettaglio utile della Peugeot prima di congedarsi.

Questo avvenimento sarebbe rimasto sepolto tra i verbali della Gendarmerie o di qualche compagnia di assicurazione se i coniugi Aubert non avessero notato un dettaglio apparentemente insignificante che, qualche ora più tardi, aveva fatto squillare nelle loro menti un campanello d’allarme. Essi avevano visto il giovane conducente della Peugeot, mentre si dirigeva nella boscaglia, trascinare con sé fuori dall’auto un bambino o una bambina dall’apparente età di 7-8 anni. Questo particolare, riferito anche a Martinez, era stato omesso nella denuncia di sinistro, con fuga, in quanto considerato ininfluente ai fini della procedura. Quando però la notizia del rapimento dell’undicenne Maria Dolores Rambla, avvenuto a Marsiglia proprio un’ora e mezza prima dell’incidente all’incrocio, aveva iniziato a battere tutti i media regionali, Aubert e Martinez si erano messi in allarme.

UN RAPIMENTO IN PIENO GIORNO

La prima pagina del quotidiano Sud-Ouest, prima del ritrovamento del corpicino di Maria Dolores Rambla

Il pomeriggio del 3 giugno, e durante tutta la giornata del 4, la denuncia di scomparsa della bambina, figlia di una coppia di umili immigrati catalani che vivevano alla Cité Sainte Agnes, aveva messo in subbuglio tutta Marsiglia e dintorni. I contorni della vicenda non erano chiarissimi. Pedro Rambla non aveva assistito al rapimento: gli era stato infatti riferito dall’altro figlio di sei anni, Jean Baptiste. Il bambino aveva raccontato di un giovane che, con lo stratagemma di farsi aiutare, aveva chiamato lui e la sorellina in quel momento intenti a giocare nel parcheggio sotto casa. C’era da ritrovare un cucciolo smarrito, aveva detto il giovane, e questo aveva convinto Maria Dolores a salire sulla sua automobile. Jean Baptiste era invece rimasto in perlustrazione attorno al condominio.

Qualche minuto più tardi, il bambino non aveva visto né il cucciolo, né la sorella, né tantomeno il giovane con la sua auto. Unico altro testimone, da una distanza di alcune decine di metri, un carrozziere che aveva riferito di aver assistito a una scena coincidente con quella descritta dal bambino. Era toccato proprio a Jean, a soli 6 anni, fare da interprete per suo padre presso la Gendamerie locale che aveva inizialmente disistimato la gravità della situazione. Più tardi, durante tutto l’iter giudiziario, diventerà suo malgrado uno dei testimoni d’accusa principali nonostante la tenera età.

ALTRI TESTIMONI

Una foto identificativa di Christian Ranucci

Gli stessi Martinez, inizialmente, avevano avuto difficoltà a essere ascoltati. In particolare i coniugi Aubert erano stati rimbalzati telefonicamente da un gendarme all’altro, tanto che la trascrizione della loro chiamata avrebbe ingenerato un equivoco sul quale, per molto tempo, si sarebbe dibattuta la veridicità della loro testimonianza.

Nel frattempo, però, era arrivata un’altra denuncia, la terza, effettuata da un operaio agricolo addetto alla cura di una fungaia sita nei pressi della RN 8-Bis. Il pomeriggio del 3 giugno, infatti, M. Herni Guazzone e il suo collega Mohamed Rahou avevano notato, con non poca sorpresa, un’autovettura incidentata all’interno della galleria in cui si trovava la fungaia. Il conducente, un giovane di circa vent’anni, aveva chiesto loro aiuto in quanto, sosteneva, la sua auto era scivolata nel fango all’imbocco della galleria mentre cercava un posto dove fare un picnic e lì era rimasta impantanata.

Con l’ausilio del trattore, Guazzone e Rahou avevano aiutato il ragazzo a uscire dalla fungaia. Avevano però considerato la situazione dapprima bizzarra e poi sospetta, al punto da annotare i dati della vettura: si trattava di una Peugeot 304 Coupé grigia metallizzata, con la fiancata sinistra ammaccata e lo stesso numero di targa già riferito da Martinez. La fungaia in questione, sita a Gréasque, si trovava a poche decide di metri dal punto in cui gli Aubert avevano visto scendere Ranucci trascinando con sé la bambina.

LA CONFESSIONE

Il piccolo Jean Baptiste Rambla, accompagnato dal padre in commissariato per i riconoscimento del rapitore

È là vicino, a poche decine di metri dal tunnel della fungaia, che alle 15.45 di mercoledì 5 Giugno la Gendamerie ritrovava il corpicino straziato di Maria Dolores, uccisa in mezzo alla boscaglia con quindici coltellate, il cranio fracassato a colpi di pietra e nessun segno di abuso sessuale. Il giovane conducente della Peugeot, grazie al numero di targa riferito dagli Aubert, era stato rintracciato in serata: si trattava di Christian Ranucci, commesso viaggiatore ventenne, che viveva a Nizza con la madre, Heloise Mathon. Il giovane aveva confessato subito di essere il responsabile dell’incidente, mostrando alla polizia che lo aveva rintracciato presso il suo domicilio l’auto visibilmente danneggiata sul fianco sinistro. Nulla, però, aveva detto riguardo al rapimento e assassinio della bimba.

Fin qui, Ranucci, avrebbe anche potuto convincere ragionevolmente gli inquirenti che la sua fuga fosse stata dovuta al momento di panico, all’inesperienza, al terrore di vedersi ritirata la patente — vitale per mantenere il suo primo, nuovissimo, impiego — quindi senza alcun coinvolgimento con il rapimento di Cité Saint Agnés. A fronte delle denunce raccolte, Ranucci era stato dunque sottoposto al regime di garde à vue, il fermo di polizia eccezionale che all’epoca non prevedeva l’intervento o l’assistenza di un legale durante gli interrogatori condotti in isolamento nei quali Ranucci aveva comunque continuato a negare ogni addebito.

Nel frattempo, il riconoscimento all’americana condotto con il piccolo Jean Baptiste aveva dato esito negativo. Il bambino non aveva riconosciuto Ranucci, ma aveva invece indicato uno dei poliziotti al suo fianco. Una volta condotto nel parcheggio in cui si trovava la Peugeot del sospettato, non l’aveva riconosciuta e al suo posto aveva indirizzato l’attenzione degli inquirenti su una Simca Chrysler appartenente a un sovrintendente di polizia. Erano stati i coniugi Aubert, chiamati a testimoniare, a riconoscere immediatamente Ranucci. Una volta portati davanti a lui, Aline Aubert lo aveva interpellato con veemenza, invitandolo a confessare. Ranucci era improvvisamente scoppiato a piangere e aveva confessato di aver ucciso la piccola Maria Dolores subito dopo l’incidente d’auto, terrorizzato dalla possibilità di essere scoperto con a bordo una bambina senza poterne spiegare le circostanze.

UN CLIMA DI ISTERIA COLLETTIVA

L’avvocato difensore Paul Lombard, che fino alla fine professò l’innocenza di Ranucci

Una volta condotto dagli inquirenti nella fungaia, all’interno della stessa era stato rinvenuto un pullover rosso che non aveva riconosciuto come suo. Dopo vari tentativi effettuati con l’ausilio del cane molecolare, Ranucci stesso aveva indicato ai gendarmi il punto esatto nel quale aveva abbandonato il corpo straziato di Maria Dolores.

All’interno dell’autovettura erano stati ritrovati dei calzoni, sporchi di fango e sangue, oltre a un capello compatibile con quello della vittima. Il tutto sembrava suggellare la colpevolezza dell’uomo, soprattutto con il ritrovamento del coltello a serramanico interrato a venti centimetri di profondità in un mucchio di strame. Ranucci ne aveva indicato con estrema precisione la collocazione, dopo due ore di ricerche infruttuose con il metal detector della Gendarmerie.

Fu subito chiaro che si trattava dell’arma del delitto. Dopo aver confessato con dovizia di particolari, Ranucci era stato associato al carcere, dal quale, solo sei mesi dopo, aveva sentito il bisogno di ritrattare sorprendendo il suo legale, il giovanissimo Jean de Forsonney, assistente del celeberrimo Paul Lombard — l’avvocato che, anni dopo, avrebbe assistito Vittorio Emanuele di Savoia nel caso Hamer.

Lombard aveva inizialmente rifiutato il patrocinio del caso per la sua indifendibilità. Il cambio di versione da parte di Ranucci, con i suoi comportamenti arroganti e istrionici, era stato quindi ben accolto e sostenuto dallo stesso Lombard che aveva perorato l’innocenza e la totale estraneità ai fatti da parte del suo assistito. Una versione alla quale, però, la giuria non aveva dato credito. Dopo solo 48 ore di processo, Ranucci era stato condannato alla ghigliottina per il rapimento e l’infanticidio di Maria Dolores Rambla. Condanna, appunto, sentenziata a pochi giorni dal ritrovamento del corpicino esanime del piccolo Philippe Bertrand, strangolato a sangue freddo dal suo sequestratore Patrick Henry.

Il clima era di isteria collettiva. Basti pensare alle urla della folla inferocita chiaramente udibili fin dentro l’interno della Camera di Consiglio del tribunale, nella sala dove i giurati avrebbero dovuto prendere la propria decisione.

GILLES PERRAULT E IL «MITO» DELL’ERRORE GIUDIZIARIO

Lo scrittore e sceneggiatore Gilles Perrault, sostenitore dell’innocenza di Ranucci nel suo best-seller «Le Pullover Rouge»

Un fatto è certo. Fino all’esecuzione di Christian Ranucci, ghigliottinato all’alba del 28 Luglio 1976, nessuno aveva veramente mai creduto alla sua innocenza. Si ritornerà a parlarne soltanto due anni dopo, fino a oggi grazie alla pubblicazione del best-seller di Gilles Perrault, Le Pullover Rouge. In questo libro, il giornalista della extreme gauche francese, che non aveva mai seguito personalmente le indagini, costruì le basi per il mito dell’errore giudiziario e, più tardi, del complotto.

Secondo Perrault, il pullover rosso eponimo, repertato all’interno della fungaia e mai riconosciuto da Ranucci, avrebbe potuto essere l’elemento chiave della sua innocenza. Di una taglia o due più grande, di un colore odiato da Ranucci (anche se le foderine della sua amata Peugeot erano dello stesso vermiglio), il pullover potrebbe essere stato quello indossato dal fantomatico, vero, rapitore e assassino di Maria Dolores.

Secondo la ricostruzione di Perrault, il predatore seriale, che avrebbe già in precedenza tentato di rapire dei bambini a Marsiglia, si sarebbe trovato al volante di una Simca 1100 grigio metallizzato, modello invero molto simile nel quarto posteriore alla Peugeot 304 Coupé, ma che il fratellino della vittima, Jean Baptiste, e il carrozziere Spinelli avrebbero da subito indicato come modello di vettura senza esitazioni. Inoltre, sempre secondo Perrault, le dichiarazioni dei coniugi Aubert sarebbero state contraddittorie e modificate nel tempo, mentre addirittura il verbale di ritrovamento dell’arma del delitto sarebbe stato scritto il giorno precedente.

LA COLPEVOLEZZA DI RANUCCI? LA SOLA TESI POSSIBILE

Alain e Aline Aubert, testimoni-chiave del caso Ranucci

La confessione di Ranucci, dunque, sarebbe stata frutto di violenze e pressioni subite a partire dalla garde-à-vue, poi proseguite nei giorni seguenti. In pratica, l’unica colpa del giovane commesso viaggiatore sarebbe stata quella di aver abbandonato la vettura dopo l’incidente nell’esatto posto in cui, pochi minuti prima o pochi minuti dopo, il vero assassino avrebbe parcheggiato la sua Simca 1100, dello stesso colore, per poi trascinare fuori e uccidere la bambina. Nessuno lo avrebbe visto: non gli Aubert, né Guazzone e Rahou e neppure lo stesso Ranucci. In altre versioni, più deliranti, Ranucci avrebbe conosciuto l’identità dell’assassino: anzi sarebbe stato quest’ultimo a fargli rapire Maria Dolores, ma Ranucci, per terrore di rappresaglie, avrebbe finito per confessare al posto suo.

Nonostante questa versione dei fatti sia diventata nei decenni sempre più popolare e condivisa, con annessa la descrizione di una Gendarmerie e una magistratura violente e corrotte, le successive e più approfondite indagini hanno dimostrato come la versione della colpevolezza di Ranucci sia la sola credibile.

I capisaldi della fervida difesa postuma di Perrault sono stati analizzati e smontati con dovizia di particolari da ex-poliziotti come Gérard Boladou e Jean-Louis Vincent, a partire dal pullover rosso. Nessun inquirente ha mai contestato a Ranucci la proprietà di questo capo, probabilmente lasciato nella fungaia da qualcuna delle coppiette che erano solite nascondersi lì per amoreggiare. Di fatto non è mai stato considerato una prova a carico dell’imputato. La testimonianza telefonica degli Aubert, raccolta in modo poco professionale dalla Gendarmeria locale, parla sì di un «pacco voluminoso», ma questo elemento non è mai presente in nessuno dei verbali di interrogatorio degli stessi Aubert, che sin dall’inizio hanno parlato di un «enfant», quindi un bimbo o una bimba.

Del resto, per quale motivo gli Aubert avrebbero potuto decidere di telefonare e testimoniare per un delitto di omissione di soccorso da parte di un giovane in fuga con un pacco? La conoscenza esatta del sito in cui era stato trovato il corpo di Maria Dolores, i dettagli del suo assassinio, il ritrovamento nel luogo esatto dell’arma del delitto altrimenti irreperibile, avvenuto dinanzi a decine di testimoni, tra gendarmi, polizia giudiziaria e lo stesso magistrato Ilda di Marino, sono incontestabili al pari dei calzoni inondati di sangue di gruppo A compatibile con quello della vittima e del sospettato.

Con un particolare: sul corpo di Ranucci non furono trovate tracce recenti di ferite alle gambe tali da giustificare una così copiosa emorragia.

UNA TESTIMONIANZA FALSA

Simca 1100 e Peugeot 304 Coupé

Insomma: se la disamina attenta delle prove contestate da Perrault indica proprio in Ranucci il colpevole, quella delle dichiarazioni e delle testimonianze in suo favore apparentemente ignorate peggiora se possibile la sua posizione. L’accusa di essere stato minacciato e torturato orribilmente durante la garde à vue non solo arriva improvvisamente, quasi a chiusura del processo e all’insaputa dei suoi stessi legali, ma è smentite sia dal referto medico, che per legge deve certificare lo stato psicofisico dell’interrogato a fine fermo, sia dalle testimonianze di decine di giornalisti di ogni area politica, in quelle ore fuori dalla sala dell’interrogatorio, che non udirono alcun rumore compatibile con un possibile pestaggio.

La testimonianza chiave che avrebbe dovuto scagionare Ranucci, quella di Jeannine Mattei, si rivelò invece un colpo di grazia. Costei sosteneva di aver assistito al tentativo di rapimento del figlio di una vicina da parte del fantomatico maniaco dal pullover rosso, a bordo di una Simca 1100, negli stessi giorni che precedettero il sequestro di Maria Dolores. Interrogata dagli inquirenti, della denuncia che la donna sostenne di aver effettuato a suo tempo non è però mai esistita traccia. La Mattei ritrattò di non aver assistito di persona al tentato rapimento, né di aver visto l’uomo né la sua auto; il fatto le sarebbe stato riferito dal figlioletto di una vicina. Dettaglio emerso solo successivamente: Jeanine Mattei era la madre di un detenuto recluso nello stesso braccio del carcere in cui si trovava Ranucci e fu invitata a testimoniare dalla madre di quest’ultimo, dietro pagamento di una forte somma di denaro.

Nel frattempo, però, erano emerse anche altre testimonianze di azioni e comportamenti di Ranucci compatibili con tentativi di rapimento di minori.

UNA «INNOCENZA» ANCORA OGGI VEEMENTEMENTE

L’avvocato parte civile Gilbert Collard. Dietro di lui, Pedro Rambla, il padre della piccola vittima

SOSTENUTA DA MOLTI

Nel lavoro degli inquirenti ci furono di certo diversi passi falsi, alcuni inverosimili e grotteschi. Tra tutti basti citare il fatto che, ancora durante la garde a vue, l’automobile di Ranucci fosse stata riconsegnata alla madre. Heloise Mathon, non sapendo guidare, si era fatta accompagnare fino a Nizza a bordo della 304 guidata da un reporter d’assalto che aveva approfittato dell’occasione per intervistare durante il tragitto la madre del sospettato. Considerato questo, appare comprensibile il travaso di bile avuto dal giudice istruttore Ilda di Marino e dal commissario Alessandra, che avevano inviato una squadra per risequestrare il veicolo. Meno comprensibile il perché la difesa non abbia insistito su questo e altri errori procedurali per insinuare il dubbio sulla bontà dell’indagine.

Nonostante tutto, la versione di Perrault trova ancora oggi molto consenso, come lo trovò in passato, tra i sostenitori dell’abolizione della pena capitale. Costoro considerano Ranucci vittima innocente di un errore giudiziario, se non di un vero e proprio complotto. Alla fine degli anni Settanta, il peso del dubbio, o meglio la certezza dell’aver mandato a morte un innocente, ebbe sicuramente l’effetto di far pesare l’ago della bilancia a favore dell’abrogazione.

Tuttavia, se la tesi dell’innocenza di Ranucci è ancora oggi così veementemente sostenuta da molti, specialmente nell’area gauchiste, è proprio perché paradossalmente in essa si nasconde un tarlo, un vizio etico: l’implicita ammissione che la pena di morte, in questo caso come in altri, sia ingiusta non in quanto tale, ma perché ha portato alla morte un innocente. Basti ricordare che lo stesso avvocato difensore Le Forsonney, a differenza di Lombard, non aveva mai creduto all’innocenza del suo assistito. Specularmente, l’avvocato di parte civile dei Rambla, il principe del foro Gilbert Collard, aveva richiesto di non comminare la pena di morte all’imputato, ritenendo la pena ingiusta in sé e avendo convinto della stessa i genitori di Maria Dolores.

L’ingiustizia, secondo costoro, non sarebbe stata tanto il riconoscimento della sua colpevolezza, ma il non aver dato peso alle circostanze attenuanti: la mancanza di un movente chiaro nel delitto, la personalità fragile, istrionica e immatura dell’imputato, emersa dalle perizie psichiatriche e resasi patente durante il processo, le sviste e gli errori procedurali commessi dagli inquirenti nelle prime fasi delle indagini. Non ultima — come sottolineato in varie occasioni da Le Forsonney, Collard e successivamente anche da testimoni e giurati — è mancata la serenità di giudizio in una Francia incendiata dall’odio e dallo sdegno, in un tribunale circondato dalla folla urlante come ai tempi delle tricoteuses di rivoluzionaria memoria.

LA PRESTIGIOSA FIGURA DI ROBERT BANDITER

La strategia dell’invocazione di innocenza a ogni costo e contro ogni evidenza, scelta dall’imputato e dal suo difensore Lombard — e in modo postumo Perrault — è considerata ancora oggi il motivo stesso della condanna a morte e del rifiuto di concessione della grazia da parte del presidente Giscard d’Estaing, che pure aveva già graziato altri condannati. Se da un lato è possibile concedere la grazia a un criminale, dall’altro è impossibile concederla a chi, come Ranucci, si proclamava con impudenza innocente. Egli scrisse allo stesso presidente che, in caso di grazia, si sarebbe aspettato di ricevere un vitalizio per rifarsi una vita in Venezuela con la madre, dimostrando di non aver mai inteso la differenza tra la grazia e una sentenza di assoluzione.

Soprattutto, nonostante il peso del caso Ranucci a favore dell’abolizionismo, la strategia dell’innocentismo a oltranza è proprio quella rispetto alla quale in varie occasioni Robert Badinter si era opposto. Il valore e il coraggio di questo ministro, indubbiamente, risiedono nell’aver dimostrato la disumanità di uno Stato capace di dare la morte, una eventualità considerata riprovevole anche in presenza dei peggiori criminali. Invocare la grazia per un innocente è facile; farlo per un vero colpevole è ancor più giusto e doveroso, secondo la convinzione di Badinter.

Se la sua carriera forense non lo avesse dimostrato a sufficienza, nel perorare la causa di uomini che egli stesso sapeva colpevoli, lo avrebbe confermato la sua storia personale. A beneficiare dell’abolizione della pena di morte, durante il suo mandato come guardasigilli, sarebbe stato, nel 1983, nientemeno che Klaus Barbie, il boia di Lione, autore di massacri e deportazioni della popolazione ebrea francese durante la Repubblica di Vichy.

Lo stesso che aveva fatto portare via il padre di Badinter, poi morto nel campo di sterminio di Sobibor.

 

michele.riccardidalsoglio@spazio70.com