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La crisi dell’Aids nell’America degli anni 80. La storia di «Mary»

Redazione Spazio70

Trentaseienne, donna dalla bellezza delicata e dalla volontà di ferro, «Mary» era stata una combattente che, partendo da una condizione di povertà, aveva ottenuto una laurea e una carriera di successo. Niente della sua storia medica avrebbe fatto pensare a una diagnosi di Aids

Un giorno, nell’aprile del 1985, il dottor Gerald H. Friedland si ritrovò al capezzale di una giovane di nome Mary. Come medico, aveva di fronte uno dei problemi più umanamente difficili da affrontare: avrebbe dovuto far sapere alla propria paziente, trovando e usando le parole più adatte possibili, che sarebbe morta di lì a poco. Si trattava di una situazione che Friedland aveva dovuto affrontare più e più volte negli ultimi quattro anni, nel suo ruolo di capo di una equipe dedicata al trattamento dei casi di Aids presso il Montefiore Medical Center di New York. Col tempo aveva dovuto imparare tutte le parole giuste, le delicate dinamiche psicologiche delle quali tener conto in simili situazioni, destreggiandosi tra una flebilissima speranza che non sentiva veramente sua e la dura realtà che la sua professione di medico gli aveva sbattuto in faccia troppe volte. Dare la notizia di una diagnosi infausta non era mai stato facile per lui, ma con Mary sembrava essere particolarmente difficile. Anche nel suo letto, in preda alla malattia, con la pelle pallida e i polmoni che quasi urlavano in una disperata fame d’aria, quella donna era ancora troppo luminosa, troppo viva, per essere preda di una malattia tanto devastante. Tutti, all’interno del team di Friedland, avrebbero volentieri cambiato la realtà se ne avessero avuto il potere; ognuno avrebbe fatto l’impossibile per salvare la vita di Mary. La realtà però era quella: aveva l’Aids e sarebbe morta di lì a poco.

I TRECENTO CASI DEL PERIODO 1981-85

La copertina del settimanale americano «Newsweek» dedicata al dottor Gerald Friedland

Friedland e i suoi assistenti avevano assistito impotenti a troppe morti, al punto tale che lo stesso psicologo del gruppo si era chiesto per quanto tempo sarebbe riuscito ad andare avanti in questa lotta impari contro una malattia che a metà anni Ottanta aveva già dimostrato di essere una delle più spaventose del nostro tempo. Il compito di Friedland, la sua parte nella battaglia contro quello che pochi anni più tardi sarebbe stato definito «il male del secolo», non era di risolvere il mistero dell’Aids sebbene avesse dalla sua già alcune ricerche importanti. Il suo compito era quello di prendersi cura dei malati, applicando tutte le conoscenze che la scienza fino a quel momento metteva a disposizione. Era insomma come un ufficiale di fanteria che in una guerra era riuscito a ottenere solo piccole vittore, col solo risultato di ritardare una sconfitta prevedibile. Perché il gruppo Friedland aveva ormai affrontato quasi 300 casi, a partire dal 1981. Più di 200 di questi si erano risolti nel modo più tragico e per gli altri, in assenza di miracoli, si prevedeva il medesimo epilogo. Se ogni morte era fonte di dolore per questi medici, a volte la sofferenza era stata particolarmente acuta, persino invalidante. Come nel caso di Mary.

Già, perché a tutta l’equipe lei era piaciuta immediatamente e questo aveva portato quasi a perdere di vista la diagnosi nella volontà di credere che, per una volta, forse sarebbe andata bene. Mary era, a 36 anni, una donna dalla bellezza delicata e dalla volontà di ferro. Una combattente che, pur partendo da una condizione di povertà, aveva lottato per una laurea e una carriera di successo nel sociale con un paziente e prezioso lavoro sui bambini affetti da ritardo mentale. Niente della sua storia medica l’aveva contrassegnata come candidata all’Aids. Era, secondo la sua stessa ammissione, una sorta di salutista. Una militante del mangiare bene, dormire bene e del prendersi cura del proprio corpo. Aveva avuto come chiunque le sue disavventure sentimentali e a volte, quasi parlando con sé stessa, non riusciva a capacitarsi di quanto fosse stata ingenua. Più recentemente aveva deciso di riorganizzare la sua vita attorno ai suoi tre figli. Non aveva mai fatto uso di sostanze stupefacenti e negli ultimi sei anni non aveva avuto alcuna relazione al di fuori di quella con il suo amato Nicky, un giovane assistente sociale che aveva formato lei stessa. E Nicky era pulito, lei lo sapeva.

«HAI LA COLPA DI QUANTO TI È ACCADUTO»

C’era però stato un fatto che nella sua «intervista» di fronte ai medici non era saltato fuori. Prima di Nicky, Mary aveva avuto una sfortunata storia d’amore. Con già due figli a carico da ragazza madre, prima di compiere i 21 anni, comparve nella sua vita un ragazzo di nome Jaime. Di lui l’aveva colpita la forza, la bellezza e così aveva deciso di sposarlo, soprattutto per garantire, così pensava, un certo grado di sicurezza e stabilità ai propri figli. Con Jaime, Mary ebbe subito un terzo bambino. L’unione sembrava fondata su basi serie, al punto che il ragazzo sembrava deciso a imparare un nuovo mestiere e mettere la testa a posto. La relazione si rivelò, però, ben presto tossica e il matrimonio una sorta di arena di combattimento. Lo spirito libero di Mary entrò subito in contrasto con un certo, prepotente, machismo mostrato più volte da Jaime. Quando scoprì la relazione con un’altra donna, decise di lasciarlo. Nel 1977 cacciò fuori di casa Jaime e nel 1982 i due divorziarono.

Durante l’adolescenza e la prima gioventù Jaime era stato un consumatore di droghe per via endovenosa. Aveva così messo sé stesso — e la moglie — sulla strada dell’Aids. Lui e Mary erano ormai separati da tempo quando i primi effetti della malattia iniziarono a manifestarsi sull’ex marito. Mary, una volta messa al corrente dei problemi di salute di Jaime, aveva portato il loro bambino a vederlo. Lo trovarono lì, a due passi, malato e rimpicciolito in un letto d’ospedale. «Tutto quanto ti è accaduto è conseguenza dei tuoi comportamenti e io non posso farmene carico», furono le uniche parole pronunciate da Mary che poi fece ritorno a casa nella vita borghese che con fatica si era creata. In fondo si era dimostrata, senza troppe ipocrisie, sostanzialmente incapace di provare dolore per l’ex marito o un qualsiasi rammarico per la loro separazione. Nell’ottobre 1984 seppe che Jaime era morto. Da quel momento in poi, quell’uomo sembrava destinato a essere derubricato come una qualsiasi storia finita male, sepolta nel passato di una giovane donna. D’altronde non avevano avuto rapporti sessuali da ben sette anni, un lasso di tempo sufficiente a escludere, quando la stessa Mary si ammalò, qualsiasi tipo di correlazione con l’ex marito. E così Jaime e la sua malattia semplicemente non venne menzionato ai primi medici che l’avevano visitata.

UN VOLTO NELLO SPECCHIO

A mancare era quindi un solo decisivo pezzo del puzzle, nonostante le condizioni di salute di Mary fossero già precarie. Due mesi dopo la morte di Jaime, aveva preso un raffreddore particolarmente brutto. Sembrava passato dopo un paio di settimane, ma poi si era ripresentato più forte di prima. Il primo medico che l’aveva visitata aveva parlato di asma; un altro aveva ipotizzato una allergia al pelo dei gatti. Nessuna cura aveva migliorato la situazione. Ad aprile 1985, Mary riusciva a malapena a salire una rampa di scale o a pronunciare una semplice frase senza tossire e avere il fiato corto. Era sempre stata in buona salute; aveva sempre avuto una pelle meravigliosa e un sorrisetto estremamente sexy. Era sempre stata legittimamente orgogliosa, persino vanitosa, della sua bellezza. Ma il viso che lo specchio ormai le rimandava indietro sembrava qualcosa di più vicino a una bianca, spettrale, maschera mortuaria incorniciata da una massa di capelli ricci e scuri. Quando finalmente arrivò il giorno in cui riprendere il lavoro dopo un lungo periodo di malattia, non riuscì nemmeno a fare le scale della metropolitana. La soluzione fu quella di tornare indietro e mettersi a letto.

Suo figlio, intanto, continuava a chiederle che cosa le stesse succedendo. «È solo influenza», continuava a rispondere Mary, con una inclinazione della voce che esprimeva più desiderio che convinzione. Un’amica, preoccupata, le fece una «improvvisata» notturna e dopo averla osservata bene le gridò chiaro e tondo che stava morendo. Mary, che ormai era troppo debole per discutere, si lasciò semplicemente trascinare in ospedale. La dottoressa che si occupò dei primi controlli era una giovane donna, una stagista molto in gamba facente capo a Friedland. Aveva diagnosticato una semplice bronchite batterica, ordinando un ciclo standard di antibiotici. Friedland, però, osservando a distanza il caso, sospettava qualcosa di diverso. La sua stagista, pensò, aveva lasciato che i sentimenti per Mary si mettessero in mezzo rispetto a una diagnosi terribile.

D’altronde non poteva biasimarla. Anzi, riteneva che quei giovani medici fossero particolarmente coraggiosi ed emotivamente coinvolti nel trattare i casi di Aids che dall’inizio degli anni Ottanta si stavano facendo sempre più numerosi. Li vedeva come soldati in trincea che combattevano una battaglia persa in partenza contro un nemico implacabile. Era difficile, per questi ragazzi non provare empatia verso persone della loro stessa età, nelle quali potevano benissimo identificarsi, destinate a diventare vittime di una malattia che la moderna medicina sembrava incapace di fermare. Lo stesso Friedland era ancora relativamente giovane e sapeva cosa stavano provando quei colleghi. Avevano preso la laurea in medicina per salvare vite, non per contare i morti o dire a dei giovani come loro che stavano per morire. Nonostante tutti questi sentimenti e pensieri, a Friedland continuavano a non piacere i sintomi di Mary, il respiro rapido e quella drammatica fame d’aria mostrata dai suoi polmoni.

LA BIOPSIA POSITIVA

«Ho il sospetto che sia una pneumocisti», disse quindi alla stagista: «Penso dovresti fare una biopsia polmonare». Il test venne quindi preparato e portato a termine. Mary venne sottoposta ai raggi X e un minuscolo pezzo di tessuto polmonare venne estratto con una minuscola tenaglia posta all’estremità di un lungo tubo a fibre ottiche. Il campione dette prova di una polmonite assai rara presso la popolazione in generale, ma molto frequente, e mortale, tra i malati di Aids: la Pneumocystis carinii. Friedland aveva ragione. Con la biopsia e la scoperta di quell’ultima tessera del puzzle del passato di Mary, il sospetto divenne certezza. La diagnosi era Aids.

Mary immaginava già ciò che il dottor Friedland le avrebbe detto quando se lo vide davanti al suo capezzale. Alcuni membri del personale medico avevano menzionato il risultato della biopsia in sua presenza, presumendo che il termine pneumocystis sarebbe stato da lei scambiato per un vocabolo greco non particolarmente preoccupante, ma Mary aveva già sentito parlare di quella patologia e sapeva che era associata all’Aids. Quando le fu detta la verità, sembrò insensibile alla notizia; in realtà paura, rabbia e incredulità si mischiavano confusamente nella sua mente, come eserciti in guerra su una pianura arida. Pensò a Nicky, che adorava, e si chiese se sarebbe morto per il suo amore. Pensò a Jaime, che odiava, e desiderò che fosse ancora vivo per poterlo picchiare.

Infine alzò lo sguardo e, come in una foschia, vide Friedland. Era un uomo di 46 anni, ben piazzato; portava i baffi, ormai grigi così come i capelli un po’ arricciati sul bavero del tipico camice da laboratorio. Il suo viso sembrava fatto per sorridere, ma i suoi occhi azzurri erano stanchi e le rughe sulla fronte profonde. Friedland prese la mano della sua paziente, come d’altronde aveva sempre insegnato ai suoi studenti. Credeva fosse importante toccare i malati di Aids, perché un medico può fare molto per non alimentare uno stigma che fin da subito sembrava essersi abbattuto sulle vittime di questa terribile malattia.

IL DOVERE DI NON MENTIRE DI FRONTE ALLA MALATTIA

Infine glielo disse, ma senza aggiungere troppe cattive notizie tutte in una volta. Preferì soffermarsi sugli elementi che dessero una qualche speranza. Sì, non c’erano cure per l’Aids. Non ancora. Ma ciò che faceva morire le persone erano le sue complicazioni, le infezioni che si scatenano quando il sistema immunitario del corpo è ormai compromesso. I medici, disse Friedland, avevano in quegli ultimi anni acquisito una certa esperienza nel riconoscere e curare quelle stesse complicazioni. Se in molti casi non erano stati in grado di allungare la vita dei malati, erano però stati capaci di renderla più sopportabile. Parlò anche del lavoro svolto nei laboratori per trovare una cura, paragonando il tutto a una corsa podistica. La scienza contro il tempo, disse. Il suo ruolo era quello di mantenere in vita i pazienti, il più a lungo possibile, nelle migliori condizioni possibili, nella speranza che qualcosa, un giorno, sarebbe stato scoperto.

Quello che a Friedland interessava far capire ai propri malati era che non sarebbero mai stati abbandonati. Disse a Mary che le persone potevano restare in vita fino a due anni da quel colloquio e lei prese il numero come una previsione. In realtà la metà dei pazienti fin lì curati era scomparsa entro sei o sette mesi dalla prima volta che Friedland li aveva visti, l’altra metà entro un anno. Se però avessero avuto un po’ di fortuna, le disse, il normale colorito e la sua vitalità sarebbero tornati. Forse sarebbe stata anche in grado di lavorare per un po’. Questa era la speranza di un medico, ma lui, Friedland, lo sapeva bene: la fine sarebbe arrivata lo stesso. Perché le infezioni sarebbero diventate più gravi e frequenti; perché a volte il dolore poteva essere forte; perché in alcuni casi la mente poteva morire prima del corpo.

Decise quindi ancora una volta di non mentire sulla malattia. Tuttavia, in quel primo incontro, decise anche di risparmiare alcuni dettagli. Mary era una di quelle speciali e sarebbe stato già abbastanza difficile vederla morire.

[Da un articolo pubblicato a metà anni Ottanta su «Newsweek». Riadattamento del testo a cura di Spazio 70]